Vittorio Feltri ha
espresso un giudizio negativo sulla capacità di vestirsi dei Foggiani (quindi
un ennesimo giudizio negativo sui meridionali)
attraverso un commento circa il modo di vestire del foggiano, primo ministro,
Conte.
Che dire?
Sono possibili moltissimi
tipi di reazione, quasi tutti, comunque, nel segno dell’indignazione.
Tra essi, possono ben
inserirsi i due che mi vengono dentro:
Non
ce ne impipa assolutamente nulla di quello che pensa Feltri;
Ci
“piace” (si fa per dire) questa critica di Feltri, per gli
effetti positivi che essa ha avuto: ha risvegliato, infatti, animi e coscienze
che parevano irrimediabilmente sopiti e persi alla causa del rinascere del meridione.
Dunque, grazie Vittorio!
Andando un po’ oltre il
fatto contingente, credo che la prima reazione, se vogliamo, abbia un carattere
più generale e … futuribile: è auspicabile che sia sempre di questo tipo la
nostra reazione in futuro. Fin quando, infatti, porremo l’attenzione su quello
che loro pensano di noi, ci porremo, ci sentiremo, saremo in
una condizione di inferiorità, almeno psicologica (forse, la peggiore fra
tutte) nei loro confronti.
Sapere cosa pensa di noi
il vicino di casa, è importante perché serve per gestire il rapporto; ma non
deve diventare il punto di riferimento a cui adeguare il proprio agire, una
sorta di super-io che detta e regola il nostro comportamento: significherebbe
mettere noi stessi nelle mani del confinante.
I nostri problemi di meridionali (quelli, diciamo, nostri-nostri – ma come sarebbe stato il
presente se non ci fossero state le azioni “unificatrici” del 1860 e la politica che ne è stata la continuazione
dopo esserne stata l’ispiratrice!? – e quelli indotti, ancora oggi, da loro) li dobbiamo avere ben chiari e
dobbiamo fare di tutto per risolverli.
Quando questo sarà
avvenuto e, di noi, avremo una coscienza come quella che avevano i nostri avi
di loro stessi … oltre 150 anni fa,
allora quello che potranno pensare personaggi come Vittorio, lo guarderemo con
distacco, forse con sufficienza perché confronteremo ciò quei messaggi
contengono, rappresentano, sono, con la realtà, positiva, che vivremo, sentiremo
nostra … sentiremo di essere.
Ma, per arrivare a questo,
dovremo aver eliminato i problemi di cui sopra, dovremo aver cessato di essere
“meridionali”.
In un certo senso, Feltri
(e quelli come lui), con le sue uscite, oggi
(cinquanta anni fa sarebbe stato diverso), ci aiuta ad andare in questa
direzione.
Dallo studio dei documenti riguardanti le vicende del Risorgimento, alcuni
storici ed appassionati sono giunti a conclusioni ben diverse da quelle a cui
erano giunti altri storici. Le conclusioni di questi ultimi hanno costituito, ed
ancora costituiscono, la base sia della formazione scolastica in materia, sia della
divulgazione mediatica. I primi vengono
detti “revisionisti”, perché è come se avessero operato una revisione dei fatti
di quel periodo.
La revisione ha consentito
di giungere a conclusioni nuove, anche
opposte rispetto a quanto finora dato per consolidato, sia sugli scopi di
coloro che operarono attivamente per ottenere l’unificazione, sia sui metodi e
i mezzi da essi usati.
Il primo risultato di
questa rilettura degli eventi risorgimentali è il dubbio: chi viene a
conoscenza dei resoconti e dei documenti dai revisionisti portati alla luce (e
che mai, prima, avevano trovato spazio nei libri di testo e sui mezzi di divulgazione)
mette in dubbio quanto finora aveva dato per certo.
Nasce qui una dicotomia: c’è
chi, accettando il dubbio, rigetta le vecchie conclusioni e chi, rigettando il
dubbio, si abbarbica alle conclusioni “consolidate” da anni di insegnamento
scolastico e mediatico.
Uno dei modi, dei
meccanismi per rigettare il dubbio fatto nascere dai revisionisti sulle conclusioni
consolidate, è quello di … mettere in dubbio, in qualsiasi modo, le conclusioni
nuove, quelle frutto di revisione.
Non voglio entrare nel
merito delle controversie sorte fra storici revisionisti e storici che operano
nel solco della “tradizione” interpretativa.
Tutti ci accorgiamo, però,
che i secondi, i non revisionisti, mettono sempre pubblicamente in discussione le conclusioni revisioniste; mai che
accettassero, almeno come spunto, come punto di partenza, i documenti nuovi dai revisionisti portati
e rivolgessero, partendo da questi, i loro studi sugli attori attivi del periodo risorgimentale, su quelli, cioè, che
vollero ed operarono affinché l’unificazione divenisse un fatto.
Ma, forse, come vedremo,
non ne hanno bisogno. C’è bisogno, però, di altro.
Alcuni anni fa, parlando con
un Professore di Storia di un’Università del Lazio, dissi della manipolazione
del voto del Plebiscito del 21 ottobre 1860; feci riferimento a Caserta dove, 51 ufficiali, neanche tutti presenti,
“diedero” … 167 voti (e visto che, oltretutto, si trattava dello stato
maggiore di una divisione delle truppe occupanti, come narra il garibaldese Rustow1,
essi non avevano nessun diritto di partecipare al voto plebiscitario, ma votarono
lo stesso – come accadde ovunque nel Regno – perché pochissimi fra i pochi che
questo diritto lo avevano, andavano ad esercitarlo; ovviamente, quei 167 voti
non potevano essere che dei Sì
all’annessione al Regno di Sardegna del Regno delle Due Sicilie che, così,
cessava di esistere).
Il Professore non si
mostrò stupito; rispose, infatti, rilanciando: in altre città campane (ne citò
qualcuna) vi erano state discrepanze
simili: i Sì all’unificazione
col Piemonte, erano, pure in esse, superiori al numero degli aventi diritto al
voto. La cosa, come sappiamo, si ripeté negli altri plebisciti che seguirono, su,
per la Penisola!2
Non chiesi se, di questo,
faceva menzione nelle sue lezioni qualora gliene fosse stata data l’opportunità
didattica.
In un’altra occasione parlavo con un altro docente, questa volta
dell’Università di Salerno.
Mi disse che loro, i professionisti del settore, le
cose che gli storici revisionisti
divulgano in convegni, libri e riviste, le conoscevano benissimo e, nei
loro incontri ristretti, quando si incontravano tra loro, ne parlavano pure!
Di fatto, però, molti di loro, se non tutti, messi di
fronte alla diffusione di queste verità a loro note (come dicono) ma su cui tacciono
nella loro attività professionale (ufficiale, pubblica), le criticano o,
tutt’al più, le ignorano glissando elegantemente su di esse.
E’ come se i fisici, pur
sapendo che la forza gravitazionale che si esercita tra due masse dipende, tra l’altro,
dalle masse stesse, pubblicamente dicessero il contrario!!!
Non sarebbe male, quindi,
se questi professionisti, questi Professori, ortodossi pubblicamente, revisionisti in privato o in ristretti conciliaboli fra
addetti ai lavori, avessero lo spessore caratteriale di dire a
lezione, nei libri che scrivono, sulle
riviste con le quali collaborano etc., quello che veramente sanno essere la verità completa.
E’ una situazione
immutabile? Penso di no.
Grazie ai revisionisti, e
a quanti contribuiscono alla diffusione delle conclusioni da essi raggiunte,
aumenterà sempre di più il numero di quelli che conoscono le conclusioni oggi
definibili “eretiche”, non canoniche, sbagliate, inaccettabili perché destabilizzanti
un certo sistema.
Più queste nuove conclusioni,
più complete e, perciò, più vere, si diffonderanno, più sarà facile
propugnarle, affermarle, difenderle, ricercarle…da parte di chiunque.
Sarà una sostituzione
graduale, un viraggio lento da una forma incompleta, mistificata, falsa (… è funzione del grado di incompiutezza) ad
una più vera.
Avverrà, ma il lavoro duro, però, lo avranno fatto altri…
Fiorentino Bevilacqua
27.03.19
Carlo
Alianello, La conquista del sud, 1972
“Consultando gli archivi di piccoli comuni,
dalla Sicilia alla Toscana, ho scoperto cose curiose sui plebisciti per
l’annessione all’Italia. In alcuni luoghi la percentuale dei “SÌ” era del 120 %”. (Denis Mack Smith,
articolo su “La Stampa”)
Anni fa, in un dibattito
televisivo, si fronteggiarono, per così dire, due climatologi. Un
“vecchio” Prof. universitario e un giovane professorino, sempre
universitario, che aveva militato, mi sembra, in una associazione
ambientalista.
Il più giovane sosteneva
che la responsabilità dell’aumento della temperatura atmosferica, fosse solo e
soltanto dell’aumento della CO2 (anidride carbonica) e dell’effetto serra che
la sua presenza causa. Se aumenta la CO2, aumenta l’effetto serra che essa produce;
se aumenta questo, aumenta il calore trattenuto in atmosfera e, quindi, aumenta
la temperatura dell’atmosfera stessa.
Il vecchio Prof, invece,
sosteneva che l’aumento della CO2 non poteva essere il responsabile
dell’aumento di temperatura osservato (e c’erano pure dei dubbi su questi
valori in aumento). Faceva un esempio numerico: la CO2 è solo il 2% di tutti i
gas e vapori atmosferici capaci di trattenere il “calore” riflesso
dalla superficie terrestre che, in loro assenza, verrebbe disperso nello spazio.
Di questo 2% di molecole (CO2), solo il 2% è dovuto alle attività umane. In
numeri: su 10.000 molecole di gas (e vapori) ad effetto serra, solo 200 sono di
anidride carbonica (2% di 10.000); di queste 200 molecole di CO2, solo il 2% è
prodotto dall’uomo o, come si dice, è di origine antropica: 4 molecole (2% di
200). Quindi: su 10.000 molecole ad effetto serra, capaci, cioè, di trattenere
il calore in atmosfera e farne salire la temperatura, solo 4 sono prodotte
dall’uomo.
Possono queste 4 molecole
su 10.0000 fare tanto?
Il prof giovane, a questo
punto, si “sbracciava” chiamando in causa la teoria del caos (il
grande effetto prodotto da una piccola causa; la farfalla che batte le ali qui
causando, involontariamente, un tornado a Melbourne, per intenderci).
…E fu a questo punto che
mi venne voglia di andare via o cambiare canale: se tanto mi dà tanto, tanto mi
deve dare tanto sempre. Quella teoria la devi applicare sempre.
L’altro Prof, quello più
anziano, aveva detto che qualcuno degli altri gas (alcuni dei quali molto più
efficaci della CO2 nel trattenere il “calore” in atmosfera), variava
nel tempo molto più di quanto non variasse la CO2 antropica; inoltre c’era il
dubbio sulla costanza della quantità di energia che arriva dal Sole: se fosse
costante o fosse aumentata.
Questo fatto, i dati
paleoclimatici, storici etc. lasciavano propendere per una situazione ancora
tutta da verificare prima di lanciarsi in guerre sante.
Allora?
Forse, volendo, una certa parte, mettere sotto accusa un
certo sistema di produzione, di vita etc, e volendo, un’altra parte (quella contrapposta), approfittare di questo per
creare una situazione persino migliore, per essa, di quella che si andava
eliminando, si è scelto il mezzo della CO2 che poteva contare:
a) su un esercito di
volontari di belle speranze e grandi ideali
b) su una
“autorevole” (nonostante tutto, nonostante certe mail…) organizzazione
intergovernativa (IPPC), che sfornava previsioni allarmistiche, catastrofiche,
mai avveratesi ma in grado di motivare, alimentare e sostenere timori e aspettative dell’esercito
che, così, avrebbe continuato a marciare nella direzione creduta …”sua”, fermamente e soltantosua.
c) su ricerche sostenute e
carriere costruite solo se indirizzate nel verso giusto e, infine (poteva
mancare?) …
d) sulla gran cassa
dell’informazione mediatica che ha un fiuto eccezionale per annusare la
direzione del vento …
E’ il meccanismo solito di
quando c’è un cambiamento in atto che diventa, a torto o a ragione, epocale:
agli inizi vi sono motivazioni giuste, valide, concrete; poi, si finisce per
buttare nel calderone tutto, anche le scemenze: fanno comodo a chi, in buona
fede, lo vuole, il cambiamento (perché aiutano a raggiungere la massa critica);
sono utili a chi le usa, le “scemenze”, perché danno la possibilità di salire
sul carro che, di lì a poco, sarà dei vincitori… sono utili ai veri pupari (la
massa critica sarà raggiunta prima); ma sfugge (a quelli in buona fede) che,
così facendo, viene minata la credibilità del processo e si aprono le porte agli
opportunisti di turno che, magari, sono gli stessi di sempre; alcuni, forse,
sono proprio gli stessi che patirebbero il cambiamento in atto.
In rete è possibile
trovare brani musicali, anche di musica classica, corredati da video adeguati.
Non sempre però, il video
è attinente in tutto e per tutto al brano musicale che accompagna.
E’ quanto accade ad un
brano di Dmitri Shostakovich che, in rete, ha un titolo che, in inglese, è… The
Second Waltz.
Nella parte iniziale del
video che correda questo splendido brano di Shostakovich, si vede il Principe
di Salina che balla con la figlia di un “galantuomo“, tale Calogero Sedara, impersonata dalla
bellissima Claudia Cardinale.
In realtà, nessuno dei due
c’entra nulla con Shostakovich.
Essi, infatti, nella
trasposizione cinematografica del Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
ballavano al suono di un bel walzer di Verdi ma, se ci rifacciamo agli
insegnamenti della Storia non negata, tra una nota e l’altra del gioioso walzer
verdiano, possiamo sentire o immaginare di sentire qualcosa di ben diverso:
note tristi, un che di funebre; una sorta di… futuro, incipiente ed
imminente… lagrimosa di mozartiana
memoria.
Ogni cosa può essere letta
da due punti di vista purché uno dei due sia quello da cui si guarda con gli
occhi della ragione.
Io guardo da… sud
per cui, “stonate”, oltre alla gioiosità delle note che accompagnano quel
gattopardesco evento mondano, mi appaiono, per il loro colore, anche le fasce che
si vedono al petto di Ufficiali in secondo piano rispetto al Principe che
piroetta con la bella Angelica …
“Il sonno, il lungo sonno” che Tomasi di Lampedusa mette sulla bocca
di Don Fabrizio, non è certo quello che durerebbe, a dire di questi, da duemila
anni; è più breve, più recente, ma oltremodo dannoso, ugualmente da … “requiem”.
Vae victis…
Dovrebbe bastare…anche per
Tomasi di Lampedusa se dovesse riscrivere oggi il suo Gattopardo.
La Storia, la conoscenza,
non consentono compromessi.
Nel corso degli ultimi
500 milioni di anni, si sono verificate ben cinque estinzioni di massa, le
cosiddette Big Five.
Si tratta di
periodi geologicamente molto brevi, nel corso dei quali si ha una grande
perdita di biodiversità, con scomparsa di un grande numero di specie.
Già nel 2003, un grande
esperto di biodiversità, Edward O. Wilson, aveva stimato in 30.000 il numero di
specie che, attualmente, si estinguono ogni anno1.
Altre stime
parlano di 11.000-58.000 specie perse annualmente.
Che sia una
vera e propria estinzione di massa, la sesta a partire dall’Ordoviciano2, o una più contenuta “defaunazione
dell’Antropocene”3, resta da
stabilire quali ne siano le cause.
<<Seguendo
il modello del team di Gerta Keller di Princeton, riguardo i molteplici fattori
convergenti che causarono l’estinzione alla fine del Cretaceo, una teoria per
le estinzioni di massa si basa sull’idea che questi eventi macroevolutivi
potrebbero essere non prodotti da una sola causa catastrofica, ma
da un mix di condizioni diverse e simultanee (*). Secondo tali
modelli un’estinzione di massa avviene quando vi è una sinergia tra eventi non
usuali>>4; si veda il modello
HIPPO, proposto da E.O.Wilson5,
recentemente modificato in HIPPOC.
Tutto ciò
premesso, mi è balzato agli occhi (pur non essendo io un esperto della materia)
l’articolo, apparso sul numero di dicembre gennaio del magazine bio’s,
edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi, dal titolo Il clima. Benvenuti nella sesta
estinzione di massa, di Luca Mercalli.
Il titolo, e
il breve riassunto dell’articolo in cui si parla di Accordi di Parigi
disattesi, sembrano legare la sesta estinzione di massa ad una sola causa, in
contrasto con quanto previsto dai modelli degli specialisti del “settore vita”:
il cambiamento climatico.
Nel corpo
dell’articolo, per la verità, si può leggere … <<tra pressioni climatiche
e delle
altre attività umane(*) ormai sappiamo
di essere entrati nella “sesta estinzione di massa” della storia geologica
planetaria>> in parte così smentendo titolo e “abstract”. Subito dopo,
però, si legge << E questo è soltanto un effetto dell’aumento di
temperatura di circa 1,5 °C registrato in Italia nell’ultimo secolo…>>
(!?), il che sembra riportare tutta la questione della perdita di biodiversità
all’aumento della temperatura (a sua volta attribuita, nello stesso articolo,
alle emissioni di <<CO2
fossile>> ) <<individuato già nel 1896 [..] e poi successivamente
sempre confermato fino ai consensi scientificisanciti(*)
dai rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate
Change>>.
Titolo,
riassunto e corpo dell’articolo sembrano, quindi, sostenere, suggerire la tesi
della responsabilità del cambiamento climatico quale unica causa della sesta
estinzione di massa. Ma lo studio delle possibili cause è molto più complesso
di quanto viene riportato nell’articolo di Mercalli.
Un po’ come
quando sentiamo dire o leggiamo che (per esempio) … “le temperature di luglio
sono le più alte mai registrate” suggerendo ad un lettore superficiale, perché
poco interessato all’argomento, che a luglio del tal anno ci sono state le
temperature più alte di sempre. La parola su cui soffermarsi, per non travisare
il contenuto della frase, è “registrate”: da quando stiamo registrando le
temperature? Cento, centocinquanta anni!? Allora vuol dire che a luglio
dell’anno in questione, si è registrata la temperatura più alta degli ultimi
100-150 anni, ridimensionando di molto la cosa e riconducendola nell’alveo
corretto riportato negli studi (non “negazionisti”, ma semplicemente
scientifici di altro segno) riassunti nei grafici riportati nel sito di Pierre
L. Gosselin6.
Dunque: un
esempio, forse, di comunicazione non proprio precisissima della scienza al
grande pubblico o, quanto meno, al pubblico non specializzato.
Nell’articolo,
oltretutto, legando l’aumento della temperatura ad una sola causa, l’emissione
di CO2 fossile di cui
si asserisce il <<continuo aumento di circa 2-3 ppm all’anno>>,
discende che <<gli scenari che abbiamo di fronte sono tutti volti al
riscaldamento>>. Anche su questo (responsabilità, aumento continuo e
scenari futuri) c’è chi, sfidando il rischio di vedersi affibbiare la taccia
mediatica di “negazionista”, la “pensa”, dati scientifici alla mano, in maniera
opposta.
Vorremmo
soltanto che, sui media, questi ultimi avessero lo stesso spazio degli
ortodossi, canonici sostenitori mediatici della CO2 e del riscaldamento mai così rapido o mai
avvenuto prima d’ora.
Mozart, il grande,
precocissimo compositore salisburghese, passò, accompagnato dal padre, un
periodo della sua giovinezza a Napoli 1.
Nel suo viaggio verso la
capitale del Regno di Napoli, la sera dell’11 maggio 1770, ebbe modo di essere
ben ospitato nell’edificio vanvitelliano dell’allora Convento Agostiniano di
Sessa Aurunca, attualmente sede del Liceo Classico Agostino Nifo2.
Pur non avendo ricevuto le
scritturazioni che avrebbe desiderato, restò sempre legato alla città del “Vesuvio fumante” ammaliato da essa e
convinto che “…quando avrò scritto
l’opera per Napoli, mi si ricercherà ovunque […] con un’opera a Napoli ci si fa più onore e credito che non dando cento
concerti in Germania”.
Ma Mozart non fu il solo
ad essere stregato dalla cultura, dal cosmopolitismo e dalla civiltà che si
respiravano e vivevano quotidianamente a Napoli, città alla quale riconosceva
la capacità di poter dare un grande valore aggiunto al suo lavoro.
Tutti
ricordiamo i versi e la melodia di un brano immortale della Canzone napoletana:
Santa
Lucia3 .
Se
pure il testo italiano non sia identico a quello originale napolitano4,
presentando anche aggiunte che, in fondo, oggi, finiscono per rendere ancor più
giustizia ad una Napoli artatamente bistrattata da economia, politica e media
(“…O dolce Napoli, / O suol beato, / Ove
sorridere / Volle il creato …”), conserva il suo fascino e la sua poesia
accompagnate da una melodia struggente ed indimenticabile.
Autore,
di testo e musica, fu Teodoro Cottrau.
Nato
a Napoli nel 1827 da Guglielmo e Giovanna Cirillo 5, dimostrò ben
presto, anch’egli, il suo talento musicale.
A
12 anni vinse una borsa di studio del Governo francese.
Avrebbe,
perciò, dovuto recarsi in Francia, ma il padre si oppose: aveva ricevuto la
cittadinanza napolitana, la cittadinanza di un Paese che stimava e ammirava,
tanto da considerarsi, ormai, napolitano a tutti gli effetti. E non voleva
rinunciarvi né voleva che suo figlio fosse contaminato da una cultura che
considerava pericolosa per via delle sue caratteristiche: “corruzione, egoismo,
irreligione […] spirito rivoluzionario e presuntuoso della giovine Francia”.
E
fu così che il giovane Teodoro rimase a Napoli, dove, oltre al meritato
successo anche internazionalmente riconosciutogli, ebbe modo di contribuire
significativamente alla definizione dei caratteri formali della Canzone
napolitana.