Il Cavallo Corsiero Napolitano
Il cavallo corsiero napolitano (coursier napolitain in francese, neapolitan courser in inglese, corcel napolitano in spagnolo) fu considerato a ragione, tra i secoli XV e XVIII, uno dei migliori al mondo per le esigenze della cavalleria militare. Bello, forte e resistente, fu esportato in grande numero dalle province napolitane verso tutti gli altri stati italiani, nonché verso la Spagna, la Francia, l’Olanda, l’Inghilterra, la Danimarca, la Germania, la Prussia, la Polonia, la Russia e l’Austria-Ungheria.
Insieme con il cavallo spagnolo, con quello berbero e con quello turco, servì per l’insanguamento delle razze dell’Europa centrale e di quella settentrionale, alle quali conferì soprattutto le proprie ben equilibrate doti psicofisiche derivategli dalla costante selezione naturale cui era soggetto, opportunamente finalizzata dall’uomo attraverso un sistema di allevamento risalente all’antichità.
Già i Romani dell’età repubblicana e dell’inizio di quella imperiale avevano dimostrato magistrale perizia ippotecnica coniugando in modo soddisfacente l’esercizio atavico della transumanza con la pratica di avveduti incroci e meticciamenti. In virtù di un’accurata programmazione degli accoppiamenti, essi erano riusciti a produrre animali omogenei, quanto alla costituzione fisica ed al temperamento, in relazione alle necessità operative delle loro decuriae di cavalleria, composte in netta prevalenza da militi di stirpe siculo-italica tradizionalmente dediti al mercenariato.
Si può, pertanto, fare riferimento ad un cavallo romano antico – suscettibile di continua evoluzione morfologica ed attitudinale mediante scambi di sangue con le migliori produzioni ippiche delle regioni geografiche via via assoggettate al dominio di Roma – esemplarmente raffigurato nel monumento bronzeo all’imperatore Marco Aurelio, in Campidoglio. Sua peculiare caratteristica fu il profilo convesso (montonino) del naso, oggi definito anche, in inglese, Roman nose. Tale cavallo, sopravvissuto alla caduta dell’Impero romano di Occidente (476 dopo Cristo), ha trasmesso la più gran parte della propria eredità genetica alla razza romana (erroneamente definita, da alcuni, maremmana laziale), allevata per secoli nella Campagna di Roma, in Sabina e nella Tuscia romana.
Per tutto l’alto Medioevo, gli invasori mongolici, germanici, vandali e saraceni, sovrapponendo i loro cavalli a quelli romani non fecero che protrarre nel tempo, inconsapevolmente e disordinatamente, quanto i discendenti dei Latini avevano, consciamente e razionalmente, saputo disporre per la selezione delle loro cavalcature da guerra.
Dopo l’anno 1000, una massiccia immissione di sangue orientale fu operata in Europa dalle armate cristiane reduci dalle crociate in Palestina. Di particolare importanza fu, tra il XII ed il XIII secolo, l’introduzione di cavalli leggeri e veloci da utilizzare nella caccia con il falcone, di cui fu famoso cultore Federico II di Svevia. Alla sua passione per l’allevamento equino fu dovuto il rifiorire, nel Sud della nostra penisola, di un’ippicoltura basata su criteri simili a quelli che ne avevano permesso il grandioso sviluppo in epoca romana. Nel tardo Medioevo, ebbero spicco le ottime doti ed il buon mercato dei cavalli del Reame di Napoli, assai apprezzati anche negli stati vicini, sia al tempo degli Angioini, sia al tempo degli Aragonesi.
Spettò tuttavia agli Spagnoli il merito di porre di nuovo sapientemente a frutto le straordinarie possibilità offerte dai maestosi cavalli dell’Italia meridionale, passata sotto la loro dominazione agli albori del XVI secolo e governata, fino al 1707, da viceré nominati dai sovrani di Madrid. In quel lungo periodo di tempo, fu rinnovato lo scambio ippico tra le due penisole già avvenuto fra il III ed il II secolo avanti Cristo, allorquando le armate di Cartagine e delle Gallie avevano invaso l’Italia con i loro cavalli numidico-iberici e celtici e, contemporaneamente, alcune legioni di Roma avevano trasferito cavalli italici nella Penisola iberica, dove poi sarebbero state fondate – e popolate da romani per quasi cinque secoli – varie città, tra le quali Italica, nei pressi dell’odierna Siviglia, che avrebbe dato i natali agli imperatori Traiano ed Adriano. Di fatto, tra il Millecinquecento ed il Milleseicento si ebbero, insieme, una parziale ispanizzazione del patrimonio ippico napolitano ed una parziale napolitanizzazione di quello spagnolo. Nacque a Napoli intorno al 1534 – grazie a maestri come Giovan Battista Ferraro e Federico Grisone – la prima accademia equestre d’Europa, mentre nelle scuderie imperiali spagnole andavano aumentando il numero ed il prestigio dei corsieri napolitani. Lo stesso imperatore Carlo V d’Asburgo, … hauendo ottima conoscenza, e prattica di tutte le specie di caualli, e di tutte l’arti Caualleresche, sempre elesse per seruigio di persona i caualli Napolitani, come idonei ad ogni essercitio, e fattione. (Pasquale Caracciolo, La gloria del cauallo, Venezia, 1589).
Nella Descrizione di Firenze nell’anno 1598 da parte del principe germanico Ludwig Anhalt-Kothen – compilata in lingua italiana, nel 1859, dallo storico e filosofo di Aachen Alfred von Reumont – si legge il seguente brano sulla statua equestre in bronzo, eseguita tra il 1587 ed il 1594 dal Giambologna (il fiammingo Jean de Boulogne), che campeggia in Piazza della Signoria:
Sulla piazza maggiore sta la figura del granduca Cosimo (Cosimo I de’Medici, che aveva sposato nel 1539 Leonor Alvarez de Toledo, figlia del celeberrimo don Pedro, viceré di Napoli, n. d. r.); esso monta un gran cavallo napoletano che posa sopra due piedi, in modo da non saziar mai l’occhio per la bellezza dell’artifizio.
Il termine corsiero (o corsiere) designava, tra la fine del Medio Evo e l’inizio dell’Età Moderna, il cavallo da combattimento, la cui andatura più veloce (il corso, cioè il galoppo) lo differenziava dal portante, ossia dall’ambiatore usato prevalentemente per lunghi e comodi trasferimenti in sella: era, insomma, il nome funzionale della razza. L’aggettivo napolitano ne indicava l’origine geografica, non limitata esclusivamente a Napoli e dintorni ma estesa, fino al 1860, all’intero Regno di Napoli, comprendente parti delle odierne province di Rieti, di Frosinone e di Latina, nonché gli attuali Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata e Calabria. Corsiero napolitano (e non napoletano), dunque, in quanto cavallo storico allevato, principalmente per la guerra, in tutto il Regno di Napoli e da qui esportato, anche come miglioratore, verso il resto dell’Italia e dell’Europa.
La selezione di questo pregevole ausiliario dell’uomo d’armi avveniva nei suoi primi tre anni di vita ed era assolutamente naturale: il puledro veniva scelto in base a criteri estetico-funzionali per l’impiego bellico tra i maschi interi che componevano le mandrie, in passato definite razze, di proprietà delle famiglie nobili; quindi si procedeva al suo addestramento in apposite strutture, denominate cavallerizze.
L’arco di tempo in cui la razza assurse al massimo splendore ed alla più vasta notorietà in Europa fu quello compreso tra il XVI secolo ed il XVIII. Non vi fu, allora, monarca o principe che non ambisse ad ospitare nelle proprie scuderie corsieri napolitani morelli, o bai, o grigi, per la guerra, per la caccia, per il tiro delle carrozze. Durante tutto il XVIII secolo e nel primo quarto del successivo, la monarchia asburgica ottenne numerosi cavalli napolitani, tra i quali sono rimasti famosi Cerbero e Scarramuie, ritratti dal pittore inglese George Hamilton intorno al 1725, nonché tre dei capostipiti degli odierni lipizzani: il morello Conversano, il baio Neapolitano ed il bianco Maestoso (quest’ultimo di origine napolitano-spagnola).
Oltre alla lipizzana, furono migliorate in età barocca, mediante l’impiego di cavalli padri (stalloni) e di cavalle di corpo (fattrici) napolitani, le razze germaniche di Hannover, Holstein, Oldenburg, Trakehnen e Württemberg, l’olandese del Gelderland, la danese di Frederiksborg e la boema di Kladruby.
Alla razza lipizzana – storicamente appartenuta all’Austria-Ungheria, all’Italia ed alla Iugoslavia – spettò l’eredità più consistente di caratteri tipici dei cavalli napolitani, oggi presenti nelle famiglie maschili dei Conversano, Neapolitano e Maestoso, in quella, di origine danese, dei Pluto ed in quella, proveniente da Kladruby, dei Favory.
Nella Relazione delle persone, governo e Stati di Carlo V e di Filippo II, letta nel Senato della Repubblica di Venezia, nel 1557, dall’ambasciatore Federico Badoero, i cavalli napolitani furono definiti non vaghi come li giannetti, ma più belli che li frisoni, forti e coraggiosi…
Pasquale Caracciolo, nel suo trattato equestre intitolato La gloria del cauallo (1589), così si espresse:
Ma se di tutti i caualli rarissimi sono quelli, che di tutte le conditioni necessarie adornati, e à tutti gli essercitij siano idonei; di tal lode i Napolitani soli veramente al più generale si trouan degni; perché al caminare, al passeggiare, al trottare, al galoppare, all’armeggiare, al volteggiare, e al cacciare hanno eccellenza, e sono di buona taglia, di molta bellezza, di gran lena, di molta forza, di mirabile leggierezza, di pronto ingegno, e di alto animo; fermi di testa, e piaceuoli di bocca, con ubbidienza incredibile della briglia; e finalmente così docili, e così destri, che maneggiati da un buon Caualiere, si muouono à misura, e quasi ballano…
Nella Novela del coloquio de los perros (1613), il grande Miguel de Cervantes Saavedra richiamò con singolare incisività l’attitudine dei cavalli Napolitani all’apprendimento delle arie dell’alta scuola equestre (Ensenome a hacer corvetas como caballo napolitano…) e la loro versatilità (…viendo mi amo cuan bien sabia imitar el corcel napolitano).
Nel trattato dal titolo La perfezione e i difetti del cavallo, opera del barone d’Eisenberg, direttore e primo cavallerizzo dell’accademia di Pisa, dedicata alla Sacra Cesarea Real Maestà dell’Augustissimo Potentissimo Invittissimo Imperatore Francesco I Duca di Lorena e di Bar ec. Gran Duca di Toscana ec. ec. ec. (Firenze, 1753), si legge tra l’altro, nella descrizione della Testa Montanina (sic!), che … i gran Signori per avere stalloni colla testa montanina fanno cercarne apposta nel Regno di Napoli, o in altre parti d’Italia, per mettergli nelle loro razze, affinché comunichino tali qualità a i puledri.
Dopo il 1759, le “Reali Razze scelte” di Carditello e di Persano fornirono alla Corte di Ferdinando IV di Borbone ed al Reggimento dei “Liparoti” (guardie del corpo del Re) magnifici corsieri da guerra e da caccia, ambìti da tutta la nobiltà europea. L’intensità del flusso di tali pregevolissime cavalcature napolitane verso l’Europa centro-orientale è testimoniata da un’ampia, valida documentazione scritta.
Nella “Lettera di ragguaglio della venuta, e permanenza in Napoli di Sua Maestà Cesarea Giuseppe II” (Roma, 1769), risulta citato il dono di “Sei Cavalli baj oscuri per Carrozza” e di “Sei Cavalli di diversi manti, per Cavalcare” fatto dal Re Ferdinando IV di Borbone a suo cognato l’Imperatore Giuseppe II d’Absburgo, in occasione del viaggio di quest’ultimo a Napoli nel 1769.
Il Regno di Napoli fu visitato, nel 1789, dal nobile svizzero Carlo Ulisse de Salis Marschlins, uomo erudito, osservatore attento, resocontista scrupoloso. Egli dedicò alcune righe del suo Nel Regno di Napoli. Viaggi attraverso varie province nel 1789 alla descrizione dei cavalli napolitani della razza di famiglia dei duchi di Martina, allevati nella grande masseria di San Basilio, presso Mottola.
I cavalli del Duca sono pregiatissimi, specialmente per la loro forza, la loro gagliardia e la singolare bontà delle loro unghie; qualità queste da attribuirsi probabilmente alla natura forte e secca dei pascoli, ed al lasciare gli animali continuamente all’aperto in ogni stagione, senza rinchiuderli nelle stalle.
I puledri tenuti per uso privato, vengono domati ai tre anni, ed i cavalli che non servono per uso del Duca sono venduti verso i quattro anni, o alla fiera di Gravina o a quella di Salerno, dove il prezzo corrente di una buona pariglia di cavalli di quattro anni, senza nessun difetto, varia dai 150 ai 200 ducati. Sino a poco tempo addietro, nessun cavallo veniva castrato, servendo gli stalloni sia pel tiro, sia per cavalcare, e lasciando le giumente esclusivamente per le razze. Adesso però si usa altrimenti, e la cavalleria sarà fornita d’ora in poi di giumente e di cavalli castrati.
Anticamente non c’era barone del Regno che non avesse una o più razze di cavalli; ed i cavalli napolitani sono stati sempre e dappertutto tenuti in gran pregio per la loro resistenza e per le altre loro buone qualità, così come erano apprezzati negli antichi tempi.
La cavalleria del Re di Napoli Ferdinando IV di Borbone godeva, nella seconda metà del XVIII secolo, di buona fama. Nella sua Storia d’Italia dal 1789 al 1814 (pubblicata nel 1824), il piemontese Carlo Botta, trattando della campagna militare del 1796 nell’Italia del Nord – durante la quale furono impiegati, in aiuto alle truppe austriache del generale Beaulieu contro quelle francesi di Napoleone Bonaparte, i reggimenti di cavalleria napolitani Re, Regina, Principe e Napoli, soprannominati Diavoli bianchi – così scrisse:
Fu forte l’incontro, forte ancora la difesa, perché gli Austriaci sfolgoravano gli assalitori con le artiglierie, ed i cavalli Napolitani, opprimendo i soldati corridori, ed assaltando con impeto gli squadroni stabili, rendevano difficile la vittoria ai Francesi. Andavano gl’imperiali in rotta, ed abbandonato Fombio a chi poteva più di loro, si ritiravano a gran fretta a Codogno, con lasciar ai vincitori non poca parte delle bagaglie, trecento cavalli, circa cinquecento tra morti e prigionieri: sarebbe stata più grave la perdita, se la cavalleria Napolitana, condotta massimamente dal colonnello Federici, uffiziale di gran valore, serrandosi grossa ed intiera alla coda, ed urtando di quando in quando gagliardamente il nemico, non avesse ritardato l’impeto suo, e fatto abilità ai disordinati Austriaci di ritirarsi.
Quindi aggiunse:
La schiera tutta sarebbe stata condotta all’ultimo termine, se per la seconda volta la cavalleria Napolitana non le faceva scudo alla ritirata.
E, più avanti:
La cavalleria Tedesca, ma principalmente la Napolitana, che anche in questo fatto soccorse egregiamente i Tedeschi, proteggeva il ritirantesi esercito.
Nel primo quarto del XIX secolo, Giuseppe Ceva Grimaldi – alto funzionario regio, inviato in Terra d’Otranto da Ferdinando I delle Due Sicilie per ripristinarvi la legalità borbonica dopo il crollo del potere di Gioacchino Murat – così annotò, nel suo Itinerario da Napoli a Lecce, descrivendo la città di Martina:
Gli amatori de’ bei cavalli vi troveranno la più bella razza che ve ne abbia nel regno, avanzo di quella tanto celebre di Conversano.
Più avanti, a proposito dello stato dell’agricoltura in quella provincia, aggiunse:
Non vi sono razze di cavalli meno che una in Mattino (Matino, n. d. r.), in Martina l’altra; la prima di piccioli e vivaci cavalli , la seconda di poche ma belle giumente nate dalla mescolanza delle razze di Conversano e Martina.
Dunque, le razze cavalline di Terra di Bari (in special modo, quella dei conti di Conversano) e di Terra d’Otranto (in particolare, quella dei duchi di Martina) furono determinanti, sia per qualità sia per quantità, nella formazione della razza napolitana. D’altronde, la continua richiesta di capi nati in quegli allevamenti stimolava le famiglie della nobiltà regnicola ad una sana emulazione in un’attività d’importanza primaria, e per il suo significato economico, e per quello culturale, giacché il grado di civiltà di una nazione risultava anche dalla bontà delle sue produzioni zootecniche e principalmente di quelle equine.
Le fiere annuali di Foggia, Gravina e Salerno servirono a lungo per diffondere nel resto d’Italia e d’Europa i numerosi puledri napolitani ivi trasferiti dalle province più vocate all’allevamento, tenuti allo stato brado o semibrado per aumentarne la resistenza alle malattie, e resi avvezzi ai disagi della transumanza per esaltarne le doti di rusticità e di fondo.
Durante il loro lungo dominio sull’Italia del Sud (dal 1734 al 1860, escluso il decennio napoleonico), i Borbone di Napoli mantennero loro proprie reali razze di cavalli a Carditello, in Terra di Lavoro, ed a Persano, in Principato Citra (entrambe dal 1750, circa, al 1860), a Ficuzza, in Sicilia, (dal 1799 al 1834) ed a Tressanti, in Capitanata, (dal 1815 al 1838 e dal 1850, circa, al 1860). È noto che i cavalli del Real sito di Persano transumavano a primavera sui vicini monti Alburni, dove potevano godere, sino all’inizio dell’autunno, di un clima più fresco e più salubre e di pascoli d’alta quota abbondanti di essenze preziose per l’armonico sviluppo dei carusi (puledri nati nell’anno).
Nella grande Regione dei tratturi – comprendente la fascia montuosa appenninica e quella costiera adriatica che dall’Abruzzo scendevano, in direzione Sud-Est, fino a Metaponto ed al Salento, sotto la giurisdizione amministrativa e fiscale della Regia Dogana della mena delle pecore in Puglia – migliaia di cavalli, asini e muli erano trasferiti, insieme con enormi armenti di pecore, capre e vacche, a Maggio sui rilievi abruzzesi, molisani e lucani, nonché sulle alture del Gargano e delle Murge, per rientrare a Settembre nelle masserie o nelle poste di pianura.
Con decreto n. 8153 del 29 Marzo 1843, Ferdinando II di Borbone ordinò che fossero installate tre razze militari di cavalli per la rimonta della cavalleria dell’esercito: la prima, in Puglia ed Abruzzo (a Foggia, con monticazione a Rocca di Mezzo), composta da 28 cavalli padri e da 560 giumente da corpo; la seconda e la terza, rispettivamente in Calabria (a Belcastro) ed in Sicilia (a Lentini), composte ciascuna da 15 cavalli padri e da 300 giumente da corpo.
Quanto alle provenienze dei soggetti da assegnare a tali razze, il Sovrano delle Due Sicilie decretò:
- Le giumente per le razze militari saranno scelte tra le migliori razze nostrali e razze romane. La loro altezza dovrà essere non minore di palmi sei napolitani.
- I cavalli che dovran servire da padri verranno scelti tra i migliori italiani ed i veri di Mecklemburg e polacchi, e saranno alti non meno di palmi sei napolitani.
(Da Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie, anno 1843, semestre I, Napoli, dalla Stamperia Reale, 1843).
Un’interessante descrizione della popolazione cavallina comune (common breed) nel Regno delle Due Sicilie fu fornita dallo statunitense Robert Sears in Scenes and sketches in continental Europe (New York, 1847).
The Neapolitan horse – annotò quell’autore – is small, but very compact and strong; his neck is short and bull-shaped, and his head rather large; he is, in short, the prototype of the horse of the ancient basso-rilievoes and other Roman sculptures found in the country.
Dopo il 1860, l’allevamento del cavallo napolitano subì il durissimo contraccolpo della violenta annessione delle province borboniche da parte della monarchia savoiarda e fu quindi destinato ad un rapido degrado per effetto di scelte di politica economica tanto più insensate in quanto via via più nocive alla reputazione del nostro paese in campo ippotecnico.
La realizzazione di un complesso e documentato programma zootecnico per il recupero genealogico e morfologico del Corsiero Napolitano (CN) è stata avviata nel 2004 con l’individuazione, in alcune popolazioni cavalline dell’Italia meridionale continentale, di linee di sangue risalenti a capostipiti di origine autoctona, da incrociare con linee generazionali estere insanguate – soprattutto nei secoli XVII e XVIII – da riproduttori napolitani.
Giuseppe Maria Fraddosio
fonte
http://www.cn-corsieronapolitano.it/