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Il lungo 1799-Dalla Riconquista alla resistenza antifrancese del Decennio

Posted by on Set 29, 2023

Il lungo 1799-Dalla Riconquista alla resistenza antifrancese del Decennio

Dopo aver pubblicato il video integrale del Convegno del 10 di giugno 2023 sulle “Tre Giornate di Napoli” e i singoli interventi del Prof. Erminio De Biase, organizzatore del convegno, del Prof. Fernando Di Mieri che ha messo a fuoco il tema teologico e religioso e del Prof Gianandrea de Antonellis che ha presentato l’ultima fatica su Eleonora Pimentel Fonseca  oggi chiudiamo con l’intervento della Prof.ssa Maria Carmela Spadaro che ha parlato del lungo 1799 terminato con l’invasione francese. Dopo la relazione ci sarà il video del suo intervento

  1. Le premesse

La data del 13 giugno segna una ricorrenza importante nella storia dell’Italia meridionale, registrando un evento epocale: la marcia del Cardinale Ruffo dalla Calabria a Napoli ed il conseguente rovesciamento della cd. Repubblica partenopea rimane ancora oggi un punto fondamentale per comprendere gli eventi successivi della storia del Regno delle Due Sicilie, nonostante la   storiografia si sia dimostrata spesso “distratta”  non manifestando  il bisogno di approfondire la portata di quegli avvenimenti[1].

La popolazione si sollevò in armi come mai più sarebbe accaduto nel corso della sua storia, per riportare sul trono il legittimo sovrano, resistendo a quella che considerava un’invasione straniera e mostrandosi determinata a rovesciare un governo denominatosi democratico, ma in realtà espressione di un’oligarchia intellettuale molto vicina alla Franci,: la cd. Repubblica partenopea  non  fu  se non la longa manus del potere giacobino insediatosi in Francia con la Rivoluzione del 1789[2]. Quel potere scardinava le tradizionali istituzioni politiche del Paese dei gigli, ma soprattutto scuoteva  dalle fondamenta  una società nella quale Dio, Patria Famiglia  e Re  erano valori riconosciuti dalla maggioranza dei cittadini.   

 Le  “novità”  introdotte  nel Regno di Napoli dai  francesi  erano il frutto di una democratizzazione imposta dall’alto, non  voluta dalle popolazioni che non si riconoscevano nei simboli e nel linguaggio imposti dai giacobini. Il nuovo corso manifestò subito il proposito di fare tabula rasa del passato, cancellando ogni riferimento a tradizioni e costumi plurisecolari: fu stravolta la toponomastica, sostituito il calendario con il decadario, cancellato ogni riferimento ai Santi,  propagato un senso di diffusa ostilità verso la religione, considerata un limite al progresso ed uno strumento per tenere asservite le popolazioni[3].

L’azione dei clubs giacobini e delle logge massoniche, particolarmente presenti in Calabria ed a Napoli,  fu intensa.  Il passaggio dall’Antico al Nuovo Regime, di cui erano evidenti i sintomi nella società e che  specialmente nel Regno di Napoli   aveva già da tempo intrapreso la via di un cauto riformismo[4], avvenne invece in  maniera traumatica. Il rovesciamento del paradigma sociale  fu improvviso ed imposto con la forza: al diritto comune, che pur con le sue contraddizioni  rispecchiava una società  che  riconosceva importanza al ruolo  svolto dai corpi intermedi ed alle consuetudini quali espressione di un diritto proveniente “dal basso”,  si sostituì  la volontà del legislatore  ed il primato della legge. Sintesi del mutamento fu il trinomio rivoluzionario (liberté, egalité, fraternité) che sedusse specialmente le élites politiche ma che, al di là del fascino delle parole, significò  l’attuazione di un programma concepito in chiave anticristiana ed antireligiosa[5]. Nei fatti, la liberté  realizzava l’ emancipazione dell’individuo da ogni legame di dipendenza esterno alla  sua ragione e volontà (la religione cristiana è definita “superstizione”); la fraternité  comportava l’obbligo morale di ogni cittadino di partecipare a questa “missione liberatrice” dai vincoli ereditati dal passato e non liberamente scelti; l’égalité si realizzava come risultato della volontà del legislatore, che dichiarava uguali tutti i cittadini senza distinzione alcuna e prescindendo da oggettive  differenze di condizioni e situazioni. Era una uguaglianza teorica e non  reale,  tanto che nella Costituzione italiana  il principio fondamentale di uguaglianza enunciato nel comma 1 dell’art. 3 è sottoposto giustamente  ai “correttivi” del  successivo comma 2, proprio  al fine di evitare gli effetti paradossali ai quali porterebbe un’indiscriminata parificazione,   essendo piuttosto evidente che  l’identico trattamento di cittadini con differenti possibilità e condizioni di partenza produce inevitabilmente  disuguaglianza, discriminando  proprio i  più deboli ed i meno fortunati.

L’attuazione  tout court  di quel principio nella società del tempo, invece, comportò la soppressione di privilegi e prerogative di cui erano titolari  soprattutto le gerarchie ecclesiastiche ed il ceto nobiliare, ma non risparmiò  comunità di villaggio, associazioni professionali, diritti reali su terre e beni comuni di pascolo, di pesca, di caccia: l’ abolizione degli usi civici   produsse conseguenze drammatiche  a danno delle  popolazioni, specialmente rurali[6].  E’ questo un tema al quale ancora oggi si presta poca attenzione, ma che ha inciso profondamente nel tessuto sociale dell’Italia meridionale, con inevitabili ripercussioni  persino su eventi molto successivi  e tuttora poco noti (ne sono esempio le rivolte contadine registratesi ancora nei primi  decenni del Novecento in molti paesi del Sud[7], che  pur nascendo da fatti contingenti, hanno alle spalle una lunga storia, le cui origini riportano proprio alla  normativa francese)

  • La reazione sanfedista:  difesa di un’identità.

Il “colpo di stato” che costrinse  i sovrani a lasciare Napoli per  rifugiarsi in  Sicilia, consegnò la direzione del governo e lo Stato ai rivoluzionari giacobini, creando un governo fantoccio della Francia; impose la democratizzazione della società ricorrendo alla forza e mettendo al bando chi vi si opponeva attraverso  l’ introduzione del reato di brigantaggio, dai contorni indefiniti e già sperimentato in Francia nella repressione della resistenza vandeana[8];  provocò la reazione  armata delle popolazioni. La marcia sanfedista non fu che la risposta quasi scontata e sicuramente attesa, come evidenzia un documento molto interessante[9],  ma  scarsamente  citato.

Il 13 gennaio 1799 don Biagio Rinaldi, Cappellano e Parroco  della chiesa di S. Maria dell’Episcopio di Scalea, faceva pervenire al Re, che si trovava a Palermo, un suo “piano per il riacquisto del Regno”. Il documento mette ben in evidenza quale fosse l’animo delle popolazioni, in attesa di un cenno del sovrano, ma soprattutto di una guida per sollevarsi contro il governo repubblicano e ripristinare la legittima sovranità del trono. 

Le notizie di violenze, saccheggi, tradimenti e di come ne fosse sconvolto l’ordine sociale, inducevano il Rinaldi a ritenere che fosse urgente e necessario “respingere il nemico, abbattere i traditori, sollevare in massa  i fedelissimi vassalli” ,  offrendosi  personalmente, se il Re glielo avesse ordinato, di radunare “gente atta all’armi”  per fare entro un mese “ un corpo rispettabile di calabresi e con questi dar sesto alla capitale e mandare alle ceneri tutti gl’infedeli e felloni”.    Sono peraltro molto interessanti le  modalità con cui il Rinaldi  pensa di procedere all’attuazione del piano: “io adopererò e il Crocifisso e la forza per le province di Calabria , non solo, ma anche per tutto il Regno… per fare a V. M. un secura e valevole difesa non solo, ma da poter distruggere quanti  de’ nemici rattrovansi per l’Italia” [10]

Lo zelo del sacerdote scosse evidentemente l’animo del re, che individuò la guida più idonea per organizzare la Riconquista nel Cardinale  Fabrizio Ruffo.

Che l’idea fosse stata del Rinaldi o che fosse già nell’aria e la missiva del cappellano calabrese l’avesse soltanto sollecitata, poco importa. In meno di un mese il corpo di spedizione fu formato e l’impresa avviata con le modalità indicate dal  sacerdote.

La vicenda della marcia  sanfedista è nota e perciò se ne  riassumono solo i tratti essenziali. Il 7 febbraio 1799 un drappello di uomini al comando del Cardinale Ruffo partiva dall’estremità meridionale della  Calabria, ingrossando via vie le sue file fino a concludere la marcia  vittoriosamente,  e giungeva  a Napoli il 13 giugno, dove  metteva in fuga i giacobini, consentendo ai Borbone di recuperare il Regno.

Piuttosto è interessante riflettere sugli interrogativi che da sempre questa vicenda suscita[11]: com’è stato possibile che si realizzasse in così poco tempo una mobilitazione così massiccia della popolazione?  Come mai l’avanzamento delle truppe sanfediste nel territorio fu rapido e, di fatto, incontrastato  dalle popolazioni, che all’approssimarsi del Ruffo nei loro paesi abbattevano gli alberi della libertà  innalzando, al loro posto, la Croce ed inneggiando allo spodestato  sovrano? Evidentemente c’erano alla base di quell’adesione così imponente e  convinta, motivazioni molto forti, che affiorano molto chiaramente nella missiva del Rinaldi. La consapevolezza e la convinzione che fosse necessario difendere l’indipendenza del Regno da un’invasione straniera, manifestando  fedeltà al legittimo sovrano e custodendo la fede in Cristo e nella religione dei padri –  può spiegare in gran parte  l’adesione delle popolazioni ad un corpo di spedizione che, composto inizialmente di soli 7 uomini, in 5 mesi raggiunse e superò  il numero di 16.000. Il dato  è sicuramente interessante ed andrebbe ulteriormente indagato ma finora ha destato  solo stupore  e dato origine  semmai a congetture spesso fantasiose ma prive di fondamento[12].

Al passaggio del Ruffo e della sua armata della Santa fede le città si realizzavano spontaneamente, identificando in essi i veri liberatori. Probabilmente, l’aver adottato il simbolo della Santa Croce come propria insegna consentì ai sanfedisti di farsi riconoscere da un popolo rimasto profondamente cattolico:  nel clima di confusione  e  di messa in discussione di tutte le verità di fede che i francesi seminarono, ritrovare e difendere la propria identità, culturale e spirituale, fu determinante.  Quanto fosse importante per le popolazioni riconoscersi in quel simbolo, assurto a segno di identità nazionale, si evince, ad esempio,  anche da una ricevuta di pagamento[13] del 1802, attestata da un atto notarile, in cui il  “maestro fabbricatore”  Francesco Maoro della città di Cosenza, dichiara di essere stato pagato per la realizzazione di una piramide in cima alla quale era stata collocata la Croce, dopo il passaggio dei francesi. Il documento è  interessante anche perché racconta l’antefatto: il 15 marzo 1799, quando l’Armata reale del Ruffo entrò in Cosenza, la città si era già realizzata spontaneamente, senza opporre alcuna resistenza; i sanfedisti si limitarono pertanto a piantare alcuni vessilli della Santa Croce “in quel medesimo luogo dov’erano stati piantati gli infami alberi della sedicente Repubblica”.  Ma, poiché  in uno dei quartieri della città, frequentato da animali  – bisognerebbe poi capire se davvero si trattasse di animali perché le fonti attestano  frequenti episodi del genere in diversi paesi della Calabria, dove anche dopo la conclusione della vicenda sanfedista si registrano tentativi di abbattere le Croci e ripiantare gli alberi della libertà – accadeva che spesso ne venisse smosso il terreno con conseguente crollo dell’insegna, un gruppo di cittadini aveva  chiesto  al Preside  della Provincia di Calabria Citra Don Michele Peredes  l’autorizzazione ad erigere una Piramide in muratura per innalzarvi la Croce. Fu concesso il permesso, con la prescrizione di formare “ la base di detta piramide analoga alla larghezza della strada per non recare incomodo ai cittadini e deteriorarsi l’aspetto della città”.   Assunse l’onere  della sua realizzazione  Don Antonio Cavalcanti, nobile cosentino, che  ne commissionò la realizzazione al mastro Maoro. Questi effettivamente riceveva poi dal Cavalcanti la somma di 40 ducati,  di cui si dichiarava interamente soddisfatto.

  •  Cause e ragioni di una  lunga resistenza

Il documento, che non è l’unico del genere, attesta il protrarsi di una guerriglia tra opposti schieramenti che continuò ininterrotta  ben dopo la  conclusione della vicenda sanfedista, legandosi alla resistenza antifrancese del Decennio napoleonico: un filo rosso che mette in luce la contrapposizione tra  due diverse concezioni di vita e di valori.

E’ noto che al proclama iniziale  del 5 piovoso anno 7 (24 gennaio 1799) con il quale il generale Championnet, dopo avere bombardato la città dal forte di Sant’Elmo nei giorni precedenti,  proclamava solennemente  ai napoletani che “siete finalmente liberi; la vostra libertà è il solo prezzo che la Francia vuole trarre dalla sua conquista….”   faceva seguito, appena tre giorni dopo, il decreto  del 8 piovoso con il quale  si stabiliva il prezzo di quella  libertà, consistente in due milioni e mezzo di ducati “  somma …. che sarà interamente pagata dalla Città di Napoli e suo casali”.

Non era che un acconto: ben presto sarebbe stato richiesto agli abitanti delle province il pagamento di altri 15 milioni.  Si trattava di un’imposizione che Vincenzo Cuoco considerava smoderata” e “capricciosa” anche nel modo di ripartirla tra i cittadini:  “ si videro famiglie tassate di pochi ducati, e tassate in somme esorbitantissime quelle che nulla possedevano; ho visto la stessa tassa imposta a chi aveva sessantamila ducati all’anno di rendita, a chi ne aveva diecimila, a chi ne aveva mille”[14] Appunto: uguaglianza  indistinta ed indiscriminata.

Alla resistenza  “antidemocratica” delle popolazioni  si rispose, in generale,  con saccheggi e razzìe. Le fonti  attestano  numerosi episodi  in  diversi comuni, così come  evidenziano i motivi che la determinarono.

All’impossibilità di reperire tutto il denaro nel breve termine imposto di due mesi, si rispose facendo ai napoletani una “concessione”: di pagare in  beni ed oggetti preziosi. Dieci giorni più tardi, il commissario civile Faypoult requisiva, dichiarandoli appartenenti alla Repubblica francese, tutti i beni privati del Re e della sua famiglia, le proprietà degli ordini cavallereschi, ma anche di coloro che avevano seguito il Re in Sicilia, le terre ecclesiastiche, che furono  messe in vendita, gli arsenali, la zecca, la tesoreria, i banchi, i Musei, le biblioteche, persino gli scavi di Pompei. Tutto passava nelle mani dei francesi, mentre i giacobini napoletani si preoccuparono soprattutto di propagandare, attraverso i giornali, il nuovo credo ed un dettagliato programma anticlericale stilato da Mably sotto il nome di “diritti e doveri dei cittadini”: primo  di questi “doveri” era  il rinnegamento della fede cristiana.

Nelle province  furono inviati  gli  agenti democratizzatori per diffondere queste  novità, attraverso un processo di indottrinamento, che passava in primo luogo dalla manipolazione del linguaggio.  Con amaro realismo, Giuseppe Maria Galanti nelle  Memorie denunciava[15] lo scompiglio creato da questi agenti ed il clima di dispotismo e di anarchia: “Generalmente si è sviluppato uno spirito veramente democratico, cioè di dispotismo, di demenza, di confusione, di disordine e dianarchia.  Le virtù repubblicanesi manifestavano a suo avviso in “miserabili farse”, rappresentate ostentando “grossi cappelli con sublimi pennacchi, in vesti ornate d’oro e d’argento”

L’omiletica di S.Alfonso Maria de’ Liguori  ebbe sicuramente un peso importante nell’alimentare il diffuso sentimento antigiacobino e  non sarebbe corretto  non darne atto;  ma  altrettanto sarebbe riduttivo ignorare il contesto storico-culturale nel quale quei fatti si svolsero. 

Il popolo si senti tradito dai suoi stessi  funzionari  di governo, i quali avrebbero avuto il dovere di vigilare e custodire la Patria: l’armistizio di Sparanise, concluso dal Pignatelli  insieme all’ordine incomprensibile d’incendiare la flotta in rada, determinò la rivolta che coinvolse tutti gli strati della popolazione.   L’abolizione degli usi civici, il cambio della moneta, l’ateismo ufficialmente proclamato e reso condizione indispensabile per essere un buon “patriota”,  la sostituzione del calendario con il decadario, da cui naturalmente scomparivano i Santi ed ogni riferimento alla religione,  i saccheggi e le razzìe compiute  dai francesi in ogni paese resistente alla  “democratizzazione” forzata, fecero il resto. Ma neppure gli incendi appiccati contro le loro case riuscirono a fermare l’azione dei resistenti: in città si combatteva palmo a palmo, suscitando l’ammirazione degli stessi francesi, come annotò nel suo diario il generale Championnet (“on se bat dans toutes le rues, le terren se dispute pied a pied; les Lazaroni sont comandés par des chefs intrepide …. Et (leur) action fera époque dans l’histoire”).[16]

 Specialmente i cd. Lazzari  opposero una  strenua resistenza, ma vi furono coinvolti anche molti esponenti del cd. ceto medio,  contro i quali venivano altri  scagliati sassi, vasi di fiori e fucilate.

Anche  nelle province l’appello del  Ruffo ad unirsi all’Armata  della Santa  Fede coinvolse tutti gli strati della popolazione: medici, avvocati, notai, nobili, contadini. Questi ultimi contribuirono, soprattutto in Calabria, in misura  significativa alla spedizione  (sono i “paysans de la Calabre”  che anche nel 1806 resisteranno alle armate napoleoniche, turbando l’imperatore francese, il quale confesserà di temerli più dell’esercito). La presenza  indubbiamente  massiccia e preponderante dei contadini  è indicativa degli effetti seguiti all’abolizione degli usi civici; ma è  stato chiamato in causa  soprattutto la loro  scarsa alfabetizzazione per accreditare uno stereotipo della propaganda giacobina, veicolata   attraverso i giornali, fra i quali  in prima linea si colloca il “Monitore napoletano” , secondo il quale  da una parte vi erano gli intellettuali le cui menti aperte  si rendevano conto della necessità di  un avanzamento del Regno verso il progresso, dall’altro le masse contadine, ignoranti e superstiziose, incapaci di comprenderne  le ragioni.   Il 1799, insomma, altro non sarebbe stato che una sorta di scontro tra la barbarie e la civiltà : schema  a cui troppe volte  si sarebbe fatto ricorso anche in seguito. Si dimentica o si preferisce tacere, però, il ruolo  di sostegno alla reazione che  svolsero le Accademie,  in primo luogo l’Arcadia  Reale alla quale aderirono molti intellettuali fedeli alla monarchia borbonica[17]. Avvocati, professori, letterati, medici, ecclesiastici, svolsero un  compito  importante  nel propagare  sul piano dottrinale i valori della Tradizione  (fede in Dio, fedeltà al Re), contrastando la diffusione nel Regno del giacobinismo,  che attraverso i clubs diffondeva l’ideologia massonica.

  •  Reazione nelle Calabrie: il lungo 1799.

Le Calabrie  sono  probabilmente le province in cui il 1799 non conosce  davvero soste o interruzione,  anche se  la situazione  può dirsi analoga in  tutto il Regno, ma le ricerche su questo lungo 1799 sono abbastanza recenti e non ancora compiute; emergono periodicamente pezzi di verità, ma il mosaico è ancora da ricomporre.

Nel 1801 Ferdinando IV  concede l’amnistia  ai giacobini prigionieri o esuli: tra essi vi è Guglielmo Pepe, che ne approfitta subito per organizzare una cospirazione in Calabria; ma la congiura viene scoperta e Pepe arrestato e relegato nell’isola di Favignana dove rimane fino al 1806.

Le fonti documentano per tutti gli anni successivi l’azione incessante della Massoneria che spinge  molti liberali a farsi promotori di azioni di disturbo, di  atti cospirativi, di congiure  nei diversi paesi. La presenza di logge in Calabria è documentata fin dal 1790 a Tropea, Catanzaro, Cotrone, Palmi, Seminara  ed, in genere, lungo il versante tirrenico della Calabria Ultra: paesi nei quali viene innalzato l’albero della libertà e proclamata la “democratizzazione”. Si tratta, però, di iniziative che non incontrano i successi sperati dai giacobini ed anzi danno origine al  formarsi di fazioni  all’interno dei comuni,  che sfociano talvolta in accesi conflitti e fatti di sangue per contenersi il predominio  del municipio. Accade così a Montauro, Santa Cristina, Sant’Eufemia, Stilo, san Giovanni di Grotteria, dove il solo tentativo di affiggere in pubblico proclami repubblicani è impedito dai realisti locali[18]. Le spaccature  profonde che si determinano  nella società produrranno effetti duraturi, talvolta contrapponendo    interi nuclei familiari e, al loro interno, persino  membri della stessa famiglia: è un dato, anche questo, al quale si presta poca attenzione, ma che aiuterebbe invece a comprendere  gli  eventi successivi, a leggere in maniera critica alcuni episodi talvolta eccessivamente enfatizzati, soprattutto a collocare nella giusta cornice storica l’origine di talune “mentalità” ancora marcatamente  presenti nella società non sempre  con risvolti positivi.

Nel 1802 a Monteleone alcuni liberali (Gio. Battista Romei, Fortunato Mandarano, Antonio de Franco,  Luigi Antonucci, Stefano Francolini, Antonio  Contartese), abbattono la Croce innalzata in piazza dalle truppe sanfediste e vi ricollocano l’albero della libertà: si registrano scontri armati tra le due fazioni e la popolazione ne  resta coinvolta dividendosi per gli uni o per gli altri.  Episodi analoghi si ripetono frequentemente in molti altri paesi, originando una conflittualità latente ma pronta a manifestarsi alla prima occasione.  

Dal 1799 al 1816  specialmente le Calabrie diventano  quotidiano teatro di scontro tra filo-borbonici e filo-massonici, imprimendo anche alla successiva vicenda risorgimentale caratteri più marcati che altrove.  Certo non si tratta solo di contrapposizioni ideologiche, spesso vi sono sottesi interessi di natura reale, collegati ai vantaggi, anche materiali,  che il  ruolo politico conferisce a chi riesce a porsi a capo di una municipalità. L’ideologia che ha comunque un peso rilevante, è spesso anche la maschera dietro  cui  si nasconde un’inconfessabile  e meschina brama di potere. Una rilettura della storia d’Italia  che tenesse conto di questi elementi, potrebbe senz’altro contribuire a  fare chiarezza su tante vicende ancora enigmatiche  che si pongono alle sue origini come nazione.

Quanto accade in Calabria ancora nel 1806 (la Calabria è un esempio paradigmatico di quanto accade in generale in tutto il Regno) rappresenta la cartina di tornasole  degli eventi del ’99:  con la feroce repressione[19]  affidata prima al generale francese Andrè Massena e poi al suo collega Charles Antoin Manhès, che usano metodi terroristici  per piegare la resistenza dei “briganti” calabresi l’intera Calabria viene messa a ferro e fuoco; i semplici sospettati di “brigantaggio” (basta a creare il sospetto anche una notizia falsa, spesso tendenziosa, anche perché la delazione viene incoraggiata e premiata), sono immediatamente fucilati. L’intero territorio è letteralmente massacrato da leggi che costringono i meno coraggiosi a denunciare i “briganti” ed i  comuni a pagare i danni causati dai “briganti”.

La storiografia, sia pure con le dovute eccezioni,  mentre carica di elementi negativi le  azioni dei “briganti”, non riporta  quasi mai le nefandezze  contro le quali i briganti e – non di rado le brigantesse  ( è una presenza significativa sotto diversi profili, quella delle donne ) – reagiscono. Ma quando lo fa, è sempre attenta a mettere in evidenza i sentimenti di odio da cui  i briganti sono mossi. Non di rado, tuttavia, di fronte ai rilievi  fatti da osservatori stranieri che non si capacitano del numero davvero esorbitante di briganti presenti nei diversi angoli del Regno[20],  capita di imbattersi in qualche pagina  che  concede una sorta di apertura di credito alle insorgenze in quanto tali, chiamandole  quindi con il loro nome,  pur precisando che “ brigantaggio, insurrezione, controrivoluzione, rivolta sono termini destinati a rimanere comunque ben distinti e  solo “si incrociano  strettamente  tra loro[21]

Tuttora, non si riesce a dare un giudizio sereno su questi fatti e c’è chi  addirittura s’interroga se  personaggi  simili siano stati dei criminali o  piuttosto dei benefattori!

E  anche questo è un interrogativo  che parte da lontano  e va dritto al cuore del problema: perché i fatti del 1799 si proiettano immediatamente su quanto accadrà  durante  tutto l’arco del  Decennio, ma soprattutto aprono la strada ai fatti successivi, del 1847-48 e poi del 1860. 

E’ questo il punto. Un filo  rosso  lega queste date,  di modo che gli eventi che si registrano possono essere letti in continuità tra loro; quel filo consentirebbe di  restituire verità alla storia, avendo ragione  di una narrazione  troppo spesso  condizionata da posizioni ideologiche previe, ma si presenta alquanto ingarbugliato e sono ancora timidi i tentativi per dipanarlo.


[1] J. J. CLEMENT, 1799, Signori e popolo. Napoli città aperta, Luca Torre editore, Napoli 1998.

[2] A. MANES, Un cardinale condottiero. Fabrizio Ruffo e la Repubblica Partenopea,  con prefazione di A. DE FRANCESCO,   ed. Jouvence,  Romq, 1996

[3] G. GIARRIZZO, ra (1740-1800), stab tip. F. Morelli, Reggio Calabria 1907; F.M. DI GIOVINE, Rivoluzione contro Napoli,  Edit. Il Giglio, Napoli 1998

[4] F. VALSECCHI, Il riformismo borbonico in Italia,  Roma 1990

[5]  C. GNERRE, Illuminismo, itinerario di contraddizioni. Confutazione di un mito,  ed. Il Fedone, Battipaglia 1994; P. GAXOTTE,  La Rivoluzione francese, trad.it.,Milano, 1949;

[6] P.VILLANI, Feudalità, riforme, capitalismo agrario,  ed. Laterza, Bari 1968

[7]  M. LA CAVA, I fatti di Casignana,  Einaudi, 1974  (I edizione)

[8]  R. SECHER, Il genocidio vandeano,  trad. It., Milano 1989; G. BABEUF, La guerra della Vandea e il sistema di spopolamento,  trad. It., Milano 1989

[9] A. MANES, Un cardinale condottiero. Fabrizio Ruffo e la Repubblica partenopea. Saggio storico, Casa Ed. Vecchioni, L’Aquila 1930,  p.223-4 (appendice X)

[10] ibidem

[11] J.J. CLEMENT, cit, passim

[12] M. A. MACCIOCCHI,  La strage delle innocenti, in  Corriere della sera 17.2.1999, p. 33; contra  G. FORMICOLA,  Altamura, gli errori di Maria Antonietta Macciocchi,  in Roma 7.3.1999

[13] Il notaio rogante è Ignazio Giudice di Cosenza ed il documento  e l’atto è  riportato  integralmente in A. MANES, cit., ediz.  1930, p. 2214, Appendice doc. XI

[14] V. CUOCO,  Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, con introduz e note di N. Cortese, ed. Vallecchi, Firenze 1926

[15] G.M. GALANTI, Memorie storiche del mio tempo,  a cura di A. PLACANICA,  ed.  Di mauro, Cava de’ Tirreni, 1996

[16] J. E. CHAMPIONNER.  Souvenirs (1792-1800),  a cura di M. FAURE, Parigi 1904

[17] E. SPAGNOLO, L’Arcadia reale ed il 1799. Un’accademia letteraria alla riconquista del Regno di Napoli,  Edizioni  Nazione Napoletana, Napoli 2000; V.A. GALDI,  proclama per l Sacra Reale Maestà  sua Ferdinando IC de’ Borboni, contro l’ultima  invasione delle Armi Francesi e contro l’orrenda congiura de’ Giacobinici Novatori, Napoli 1799

[18]  G. CINGARI,  Giacobini e sanfedisti in Calabria  nel 1799,  ed. Casa del libro, Reggio Calabria 1978

[19]  P. COLLETTA, Storia del reame di Napoli,  Tip. Elvetica, Capolago, 1834; M.  DONATIVI, F. CAVEDAGNA, C. COPPOLA,   Manhès, un generale contro i briganti. Antologia di fonti,  ed. Trabant, 2022;  E. CICONTE, Storia della guerra al brigantgggio,  Laterza, Bari 2020;

[20] AA.VV., Le insorgenze antifrancesi in Italia nel triennio giacobino (1796-1799), Ed. Apes, Roma 1992

[21] G. CINGARI, Brigantaggio, proprietari e contadini nel Sud (1799-1900) ,  Editori meridionali riuniti, 1976.

Carmela Maria Spadaro

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