Quando il nord fece affari d’oro con l’emigrazione
oggi parliamo spesso di scafisti che guadagnano soldi palate con gli sbarchi clandestini ma come si puo notare non c’è nulla di nuovo e sempre sulla nostra pelle il tutto accade, leggere un bell’articolo di FERNANDO RICCARDI che di seguito riporto.
Storia negata: quando il nord fece affari d’oro con l’emigrazione
Il colossale business delle compagnie di navigazione genovesi
Il tumultuoso processo che condusse nel 1860 al repentino sfaldamento del Regno delle Due Sicilie e, quindi, alla nascita del Regno d’Italia, con Vittorio Emanuele II di Savoia nuovo e incontrastato “padrone” di gran parte della Penisola, scatenò nelle province del meridione una violenta rivolta popolare conosciuta con il nome di “brigantaggio”. La guerra, serrata e senza esclusione di colpi, tra chi voleva resistere al nuovo ordine di cose (i briganti) e chi cercava in tutti i modi di normalizzare la situazione e di spegnere i focolai della rivolta (i piemontesi), si protrasse per più di un decennio, produsse guasti inenarrabili e, soprattutto, determinò un immane bagno di sangue. Basti pensare che l’esercito sabaudo fece registrare più vittime di tutte quelle subite nelle tre guerre d’indipendenza messe assieme. Quanto ai cosiddetti “briganti” ne morirono a migliaia senza che ancora oggi, a più di un secolo e mezzo da quegli accadimenti, si possa tenere al riguardo una contabilità precisa che abbia la presunzione di essere la più vicina possibile alla realtà dei fatti. Intorno al 1870, o giù di lì, il fuoco della rivolta si spense quasi dappertutto e la calma tornò a regnare sovrana nel derelitto meridione d’Italia. Si trattava, però, di una calma apparente: di lì a qualche anno, infatti, iniziò a materializzarsi una sciagura di dimensioni epocali della quale ancora oggi si avvertono nitide le conseguenze. La gente del sud, prostrata da condizioni di vita disumane, da leggi inique, da tasse esorbitanti, da un lavoro che non c’era, da un governo centrale che pensava soltanto a cavar quattrini da una “colonia” da sfruttare e da depredare, decise di andare via, di scappare lontano, di iniziare una nuova vita altrove, di lasciare, sia pure con la morte nel cuore, la terra dei loro padri. Quella terra che aveva tanto amato, che aveva difeso con le unghie e con i denti quando erano scesi gli “invasori” piemontesi, una terra che, però, aveva prodotto solo lacrime e sangue. L’emigrazione svuotò letteralmente il meridione. Interi paesi si trasferirono armi e bagagli nelle nazioni dell’Europa centrale, del Regno Unito e ancora oltre Oceano, in America, Argentina o Brasile. Un fenomeno che si è protratto fino agli anni sessanta del secolo scorso. Un lungo ed interminabile secolo di emigrazione, di drammatiche partenze, di dolorosi addii. E il più delle volte si trattò di un viaggio senza ritorno. Il contadino del sud, deposto lo schioppo, raccolse le sue povere cose nella modesta valigia di cartone e partì verso terre lontane e spesso inospitali. Da brigante, insomma, si trasformò in emigrante e non è dato sapere quale condizione sia stata più drammatica. Sono i numeri ad attestare tangibilmente che non si trattò di un fenomeno trascurabile: dagli anni settanta dell’800 agli anni sessanta del secolo scorso furono 25 milioni quelli che partirono dall’Italia (non solo meridionale, ad onor del vero) per trasferirsi in altre nazioni straniere vicine o lontane. Più o meno la metà dell’attuale popolazione italiana. Quanto al Sud, nei primi due decenni del Novecento, emigrarono più di 3 milioni, tutti o quasi provenienti da Campania, Sicilia, Calabria e Puglia. Un dramma lacerante che spezzò il cuore e l’unità di tantissime famiglie meridionali. Anche perché, accanto a chi partiva, c’era sempre qualcuno che decideva di restare. E spesso e volentieri i due “tronconi” della famiglia disgregata non ebbero più modo di rivedersi o di riabbracciarsi. Questa enorme massa di poveretti e di disperati fece la fortuna, e questo è l’aspetto più sconvolgente della vicenda, delle compagnie di navigazione settentrionali, in particolar modo genovesi, che riuscirono ad accumulare una gigantesca fortuna speculando sulle lacrime e sulla disperazione di chi si vedeva costretto a fuggire altrove per continuare a vivere. Il biglietto da pagare per il viaggio verso l’Australia, Stati Uniti, Argentina o Brasile, non era di certo poca cosa: chi emigrava il più delle volte si vide costretto a vendere tutto o ad ipotecare case e terreni per poter pagare le spese di viaggio. Ma analizziamo un po’ più a fondo questo particolare aspetto. I piroscafi, i bastimenti e le navi sulle quali si imbarcarono milioni di persone erano praticamente le stesse che avevano agevolato, appena qualche anno prima, la distruzione del regno borbonico. Di fatto, dunque, avevano contribuito a creare quelle condizioni che portarono poi all’esodo disperato di tantissimi meridionali. Quasi tutte quelle navi erano di proprietà di una compagnia, la “Navigazione Generale Italiana”, nata dalla organica fusione tra alcune società quali la ben nota Rubattino, Florio e Lloyd Italiano. Anche qui è utile fornire qualche dato e qualche riferimento più preciso. La “Rubattino” di Genova era quella società di navigazione che nel 1857 aveva fornito il piroscafo “Cagliari” a Carlo Pisacane per il suo sbarco a Sapri, nel Cilento. Il tentativo di provocare una rivolta antiborbonica fallì miseramente e lo stesso Pisacane si vide costretto a togliersi la vita. E non si trattò certamente di un furto, come dopo si affannò a giustificare la società genovese, ma di un vero e proprio accordo tra le parti che avrebbe prodotto ottimi frutti e lucrosi vantaggi se l’impresa fosse stata coronata da successo. Praticamente la stessa cosa ci fu nel maggio del 1860 quando la medesima “Rubattino”, fingendo ancora una volta un furto, mise a disposizione di Garibaldi e delle sue camice rosse i piroscafi “Piemonte” e “Lombardo” per veleggiare alla volta di Marsala e della Sicilia. Così come liguri furono moltissime navi che presero parte al devastante assedio di Gaeta (novembre 1860 – febbraio 1861), dove si erano andati a rinchiudere gli ultimi sovrani borbonici in un disperato tentativo di resistenza all’invasione garibaldina prima e piemontese dopo, bombardando dal mare la fortezza. Anche da questo punto di vista, e non solo da esso, si può comprendere agevolmente come il processo unitario abbia apportato vantaggi di non poco conto alla parte settentrionale del paese. Denari, ricchezza e prosperità al Nord, sacrifici, sofferenza e miseria al Sud. Un Sud che, seguendo la triste sorte comune ad ogni “colonia”, dopo l’unità fu molto più povero e più “sudicio” di quanto non fosse prima. E dopo i lutti, il sangue e i massacri venne l’emigrazione che, ancora una volta, procurò agli armatori nordisti affari colossali e esorbitanti. Sempre sulle spalle, già fin troppo grevi ed onuste, dei meridionali. Questo aspetto particolare della storia del nostro paese che ancora dopo 150 anni marcia a due velocità, con uno squilibrio più che palese tra Nord e Sud, puntualmente evidenziato dai rapporti periodici dello Svimez e non solo da essi, è stato analizzato con dovizia di particolari da una bellissima mostra fotografica e documentale, intitolata “Partono i bastimenti”, allestita a Napoli, presso l’università “Suor Orsola Benicasa”, dalla Fondazione “Roma-Mediterraneo”. E’ stata un’occasione pressoché unica per toccare con mano un aspetto poco conosciuto, anche perché a lungo occultato, della storia del nostro paese. Un aspetto, ad onor del vero, non proprio edificante.
Fernando Riccardi
Articolo pubblicato sabato 22 dicembre 2012 su “L’Inchiesta”, il quotodiano dell’alta Terra di Lavoro