Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli del 1799 di Vincenzo Cuoco (seconda edizione) XIII
Il Re a Palermo
I governi son simili agli uomini: tutte le passioni sono utili al saggio e forman la rovina dello stolto. Il timore che la corte di Napoli ebbe de’ francesi, invece d’ispirarle una prudente cautela, fu cagione di rovinosa viltà. A forza di temerli, li rese più terribili di quello che erano.
Una persona di corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi la guerra, esser prudente consiglio non far sapere al soldato che egli andava a battersi contro i francesi e, con tale idea, l’essersi imaginato quel gergo equivoco col quale fu scritto il proclama e col quale si ottenne di tener celato fino al momento dell’attacco il vero oggetto della spedizione. – Ebbene! – dissero i soldati quando lo seppero – ci si era detto che noi non avevamo guerra coi francesi! – Questa non è stata una delle ultime cagioni per cui in Napoli hanno mostrato più coraggio le leve in massa che le truppe regolari, ed il coraggio, invece di scemar colle disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto anche dippiù, se il generale non fosse stato Mack. Vi è della differenza tra l’avvezzare un popolo a disprezzare il nemico ed il fargli credere che non ne abbia: il primo produce il coraggio, il secondo la spensieratezza, cui nel pericolo succede lo sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora dalla fama delle forze nemiche, non confortava col diminuirla, ma coll’accrescerla. Una volta che si temeva vicino l’arrivo di Iuba, ragunati a concione i soldati: – Sappiate – loro disse – che tra pochi giorni sarà qui il re con dieci legioni, trentamila cavalli, centomila armati alla leggiera e trecento elefanti. Cessate quindi di più vaneggiare per saper quali sieno le sue forze. – Cesare accrebbe il pericolo reale, che, sebben grande, ha però un limite, per toglier quello della fantasia, che non ha limite alcuno. Così voglion esser governati tutt’i popoli.
Lo stesso timore, che la corte ebbe ne’ primi rovesci, le ispirò il consiglio di una leva in massa. Si pubblicò un proclama, col quale s’invitarono i popoli ad armarsi e difendere contro gl’invasori i loro beni, le loro famiglie, la religione de’ padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri popoli ch’essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di risvegliare tali sentimenti in nome di Dio. Queste operazioni non mancano mai di produrre grandi effetti. Il fermento maggiore fu in Napoli, dove un popolaccio immenso, senza verun mestiere e verun’educazione, non vive che a spese de’ disordini del governo e de’ pregiudizi della religione.
Ma questo istesso fermento, che doveva e che potea conservare il Regno, divenne, per colpa di Acton e per timore della corte, la cagione principale della sua rovina. Il popolo corse in folla al palazzo reale ad offerirsi per la difesa del Regno. Un re, che avesse avuto mente e cuore, non aveva a far altro che montare a cavallo e profittare del momento di entusiasmo: egli sarebbe andato a sicura vittoria. Acton lo ritenne. Il popolo voleva vederlo. Egli non si volle mostrare, ed in sua vece fece uscire il generale Pignatelli ed il conte dell’Acerra. Tra le tante parole che in tale occasione ciascuno può immaginare essersi dette, uno del popolo disse: i mali del Regno esser nati tutti dagli esteri che erano venuti a far da ministri; prima godersi profonda pace e generale abbondanza, da quindeci anni in qua tutto esser cangiato; gli esteri esser tutti traditori: quindi, o per un sentimento di patriottismo, di cui il popolo napolitano non è privo, o per ispirito di adulazione verso due cavalieri popolari, soggiunse: – Perché il re non fa primo ministro il general Pignatelli e ministro di guerra il conte dell’Acerra? – Queste parole, raccolte da’ satelliti di Acton e riferite a lui, mossero il di lui animo sospettoso ad accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute di un regno!
Fu facile trarre a questo partito la regina. A trarvi anche il re, si fece crescere l’insurrezione del popolo. Gli agenti di Acton lo spinsero la mattina seguente ad arrestare Alessandro Ferreri, corriere di gabinetto, il quale portava un plico a Nelson: moltissimi hanno ragioni di credere che costui fosse una vittima già da lungo tempo designata, perché conscio del segreto delle lettere di Vienna alterate in occasione della guerra. Io non oso affermar nulla. Sia caso, sia effetto della politica del ministro o della vendetta di qualche suo inimico privato, fu arrestato sul molo nel punto in cui s’imbarcava per passare sul legno di Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato fin sotto il palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle grida di «Morano i traditori!», «Viva la santa fede!», «Viva il re!». Il re era alla finestra; vide l’imponente forza del popolo e, diffidando di poterla reggere, incominciò a temerla. Allora la partenza fu risoluta.
Furono imbarcati sui legni inglesi e portoghesi i mobili più preziosi de’ palazzi di Caserta e di Napoli e le rarità più pregevoli de’ musei di Portici e Capodimonte, le gioie della corona e venti milioni e forse più di moneta e metalli preziosi non ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva nella miseria. La corte di Napoli avea tanti tesori inutili, ed intanto avea ruinata la nazione con un disordine generale nell’amministrazione, con un vuoto nelle finanze e ne’ banchi; avea ruinata la nazione, mentre potea accrescer la sua potenza, rendendola più felice: la corte di Napoli dunque avea sempre pensato più a fuggire che a restare! S’imbarcò di notte, come se fuggisse il nemico già alle porte; e la mattina seguente (21 dicembre) si lesse per Napoli un avviso, col quale si faceva sapere al popolo napolitano che il re andava per poco in Sicilia per ritornare con potentissimi soccorsi, ed intanto lasciava il general Pignatelli suo vicario generale fino al suo ritorno.
Il popolo mostrò quella tacita costernazione, la quale vien meno dal timore che dalla sorpresa di un avvenimento non previsto. Ne’ primi giorni che il re per tempo contrario si trattenne in rada, tutti corsero a vederlo ed a pregarlo perché si restasse; ma gl’inglesi, i quali già lo consideravano come lor prigioniere, allontanavano tutti come vili e traditori. Il re non volle o non gli fu mai permesso di mostrarsi. Questi duri e non meritati disprezzi, la memoria delle cose passate, la perdita di tante ricchezze nazionali, i mali presenti, passati e futuri diedero luogo alla riflessione e scemarono la pietà. Il popolo lo vide partire a’ 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia.