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Don Abbondio visto da Luigi Pirandello nel saggio L’Umorismo

Posted by on Feb 24, 2023

Don Abbondio visto da Luigi Pirandello nel saggio L’Umorismo

Alessandro Manzoni e Luigi Pirandello: due grandi della letteratura italiana che si “incontrano”.
Lo scrittore siciliano, che vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1934 “per il suo coraggio e l’ingegnosa ripresentazione dell’arte drammatica e teatrale”, nel saggio L’Umorismo ci presenta Don Abbondio, il curato dei Promessi Sposi sotto il suo aspetto umoristico.

Ma prima di leggere cosa scrive Pirandello, facciamo un breve cappello introduttivo al saggio per spiegare cosa intende lo scrittore con la parola “umorismo”.

Il saggio di Pirandello: L’Umorismo

Il saggio L’Umorismo, scritto nel 1908 ed ampliato nel 1920 per rispondere alle accuse mosse da Benedetto Croce che aveva respinto le tesi pirandelliane, è il più importante tra quelli pubblicati da Pirandello perché rappresenta un vero trattato di poetica e costituisce anche una chiave di lettura delle sue opere.

Lo scrittore distingue il “comico” dall’”umorismo” e fa un esempio: immagina una vecchia signora imbellettata, coi capelli unti e tinti, che vuole imitare una giovinetta.
La prima reazione che scatena è il riso: lo spettatore comprende che lo spettacolo offerto dalla signora è l’esatto contrario della realtà. Questo aspetto viene definito da Pirandello come “comico”, ovvero la “percezione del contrario”. “Ma se ora interviene in me la riflessione e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo le sue rughe e la sua canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, con che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione lavorando in me, mi ha fatto andare oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario“.

Ecco che Pirandello ci spinge verso un atteggiamento più analitico della realtà, che si presenta sempre sotto forma di due aspetti: uno esteriore e superficiale, dominato dal gusto e dalle mode, mentre l’altro è sofferto interiormente, ambiguo e fluttuante tra chi desidera mettere a nudo i vizi altrui e nascondere i propri ed il coraggio esistenziale di una disperata ricerca della verità.
Un rapporto continuo tra l’essere ed il sembrare.

Don Abbondio è un coniglio

Leggiamo direttamente come Pirandello parla di Don Abbondio nel suo saggio.

Bisogna pure ascoltare, signori miei, le ragioni del coniglio!
(…) Ora, io non nego, don Abbondio è un coniglio. Ma noi sappiamo che Don Rodrigo, se minacciava, non minacciava invano, sappiamo che pur di spuntare l’impegno egli era veramente capace di tutto; sappiamo che tempi eran quelli, e possiamo benissimo immaginare che a don Abbondio, se avesse sposato Renzo e Lucia, una schioppettata non gliel’avrebbe di certo levata nessuno, e che forse Lucia, sposa soltanto di nome, sarebbe stata rapita, uscendo dalla chiesa, e Renzo anch’egli ucciso. A che giovano l’intervento, il suggerimento di Fra Cristoforo? Non è rapita Lucia dal monastero di Monza? C’è la lega dei birboni, come dice Renzo. Per scioglier quella matassa ci vuol la mano di Dio; non per modo di dire, la mano di Dio propriamente. Che poteva fare un povero prete?
Pauroso, sissignori, don Abbondio; e il De Sanctis ha dettato alcune pagine meravigliose esaminando il sentimento della paura nel povero curato; ma non ha tenuto conto di questo, perbacco: che il pauroso è ridicoloè comicoquando si crea rischi e pericoli immaginarii: ma quando un pauroso ha veramente ragione d’aver paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribile, uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non è più comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come Fra Cristoforo, che va ad affrontare il nemico nel suo stesso palazzotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo dovere, dalla nequizia altrui, è reso difficilissimo, e però quel coraggio è tutt’altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe. Al posto d’un eroe troviamo don Abbondio. Noi non possiamo, se non astrattamente, sdegnarci di lui, cioè se in astratto consideriamo il ministero del sacerdote. Avremmo certamente ammirato un sacerdote eroe che, al posto di don Abbondio, non avesse tenuto conto della minaccia e del pericolo e avesse adempiuto il dovere del suo ministero. Ma non possiamo non compatire don Abbondio, che non è l’eroe che ci sarebbe voluto al suo posto, che non solo non ha il grandissimo coraggio che ci voleva; ma non ne ha né punto né poco; il coraggio, uno non se lo può dare!
Un osservatore superficiale terrà conto del riso che nasce dalla comicità esteriore degli atti, dei gesti, delle frasi reticenti ecc. di don Abbondio, e lo chiamerà ridicolo senz’altro, o una figura semplicemente comica. Ma chi non si contenta di queste superficialità e sa veder più a fondo, sente che il riso qui scaturisce da ben altro, e non è soltanto quello della comicità.
Don Abbondio è quel che si trova in luogo di quello che ci sarebbe voluto. Ma il poeta non si sdegna di questa realtà che trova, perché, pur avendo, come abbiamo detto, un ideale altissimo della missione del sacerdote su la terra, ha pure in sé la riflessione che gli suggerisce che quest’ideale non si incarna se non per rarissima eccezione, e però lo obbliga a limitare quell’ideale, come osserva il De Sanctis. Ma questa limitazione dell’ideale che cos’è? è l’effetto appunto della riflessione che, esercitandosi su quest’ideale, ha suggerito al poeta il sentimento del contrario. E don Abbondio è appunto questo sentimento del contrario oggettivato e vivente; e però non è comico soltanto, ma schiettamente e profondamente umoristico.
Bonarietà? Simpatica indulgenza? Andiamo adagio: lasciamo star codeste considerazioni, che sono in fondo estranee e superficiali, e che, a volerle approfondire, c’è il rischio che ci facciano anche qui scoprire il contrario. Vogliamo vederlo? Sì, ha compatimento il Manzoni per questo pover’uomo di don Abbondio; ma è un compatimento, signori miei, che nello stesso tempo ne fa strazio, necessariamente. Infatti, solo a patto di riderne e di far rider di lui, egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo, il poeta viene anche a ridere amaramente di questa povera natura umana inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni pietose si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a lui s’allarga il discredito del valore umano. Il poeta, in somma, ci induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere che è pur umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a passarci bene la mano su la coscienza. E che ne segue? Ne segue che se, per sua stessa virtù, questo particolare divien generale, se questo sentimento misto di riso o di pianto, quanto più si stringe e determina in don Abbondio, tanto più si allarga e quasi vapora in una tristezza infinita, ne segue, dicevamo, che a voler considerare da questo lato la rappresentazione del curato manzoniano, noi non sappiamo più riderne. Quella pietà, in fondo, è spietata: la simpatica indulgenza non è così bonaria come sembra a tutta prima.
Gran cosa come si vede, avere un ideale – religioso, come il Manzoni; cavalleresco, come il Cervantes – per vederselo poi ridurre dalla riflessioni in don Abbondio e in Don Quijote! Il Manzoni se ne consola, creando accanto al curato di villaggio Fra Cristoforo e il Cardinal Borromeo; ma è pur vero che, essendo egli sopra tutto umorista, la creatura sua più viva è quell’altra, quella cioè in cui il sentimento del contrario s’è incarnato. Il Cervantes non può consolarsi in alcun modo perché, nella carcere della Mancha, con Don Quijote – come egli stesso dice – genera qualcuno che gli somiglia.

Tratto da: L’Umorismo, Luigi Pirandello (Lanciano, Carabba, 1908) – Cfr. la 2a edizione aumentata del 1920 in Saggi, Luigi Pirandello, a.c. di Manlio Lo Vecchio Musti, Milano, Mondadori, 1973, pp. 143-45.

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