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IL CONTRABBANDO NEL REGNO DI NAPOLI SECONDO LA DOTTRINA DEL XVII SECOLO di DI PAOLO MELCHIORRE

Posted by on Giu 22, 2021

IL CONTRABBANDO NEL REGNO DI NAPOLI SECONDO LA DOTTRINA DEL XVII SECOLO di DI PAOLO MELCHIORRE

PARTE PRIMA

IL DELITTO DI CONTRABBANDO NEL REGNO DI NAPOLI

1.Origini del termine contrabbando.

Richiamandosi a gran pane della dottrina del suo tempo, il Gonzalez de Salcedo[1] definiva il termine “Contrabando”, una dizione moderna composta dalla proposizione “contra” e dalla voce “bando”, poco conosciuta dai giureconsulti, che equivaleva alla manifestazione pubblica di qualche coda da rendere nota al popolo.

La prima testimonianza di questa voce, bando, nel diritto era ricavata da una costituzione dell’imperatore Federico II, che aveva imposto questo nome al mandato. None era però conosciuta la sua origine certa; Alciato l’aveva dedotta da un antico principio dei Greci e dei Romani; per altri essa doveva derivare dalla voce tedesca “bann” che significava territorio; altri ancora la facevano risalire al termine “banner”, introdotto dai Vandali al tempo degli imperatori Arcadio ed Onorio, che indicava l’insegna militare dove veniva reso pubblico ogni ordine per l’esercito.

Comunque, pur non potendo segnalare la vera origine, la dottrina era concorde nel ritenere che fosse un termine generale che significava mandato, statuto, editto, nomi conformi all’accezione comune ed al modo recepito in ciascuna lingua; e che esso prevedesse pene per i suoi violatori, per obbligare come ordine superiore.

Il bando infatti conteneva il precetto e la pena: l’uno che dimostrava tutto ciò che doveva essere osservato, l’altra quello che doveva essere imposto a chi avesse praticato le attività proibite. Il fatto che fosse reso pubblico perché venisse a notizia di tutti, giustificava la imposizione della pena, servendo da citazione universale per i violatori.

Quindi con il termine “bando” venne indicata la proibizione di qualunque cosa la cui esecuzione danneggiasse il bene comune. E fu chiamato “contrabando” ogni trasgressione allordine ed alla volontà suprema del principe, che aveva previsto quel determinato delitto.

2. Il delitto di contrabbando nel regno di Napoli e le pene previste

Le regie prammatiche del regno di Napoli proibivano le esportazioni di cavalli, oro, argento, frumento, armi, ed altre cose del regno “per il bene e l’utilità di tutti”.[2]

Funzione principale di esse era quella di prevenire l’estrazione di beni cui la penuria avrebbe potuto prvocare, come affermava Francesco Rocco,[3] “ruinae et contrubationes in toto Regno”. Così recitavano, infatti, una prammatica edita nel 1560 che vietava l’esportazione di bestiame; “…ei comanda ad ogni persona di qualsivoglia stato, grado e conditione si sia, che da qua avanti non s’estraha fura di Regno, ne d’alcuna Provincia o luogho d’esso, alcuna quantità ne grande ne piccola di bestiame, perché tale estrattione saria con danno universale delli sudditi suoi, e diminutione non piccola delle sue entrate…”; una del 1581 sull’estrazione illecita di monete: “… molte persone hanno estratto, ed estrahano da questo predetto Regno gran quantità della moneta in contrabbando in danno del pubblico del detto Regno, e in disservitio di Sua Maestà, poiché per occasion di detti contrabandi viene a diminuire il numero delle monete predette in Regno, e il commercio potria mancare, per non ci essere abbondantia di detta moneta, con la quale si attenda al commercio predetto, talché volendo prevedere per quello, che conviene al -regio servitio, e l beneficio pubblico di questo predetto Regno, ci è parso fare il presente bandi omni tempo e valituro…”; ed ancora una pubblicata nel 1662: “… per evitare li disordini delle tempi passati, conviene castigare rigorosamente li estrahenti, quai con tal estrattione hanno cagionato tanti inconvenienti e interessi a questo detto Regno…”.

Ed a seconda della qualità del delitto e delle pene previste, la causa di estrazione vietata era considerata civile o criminale. Si aveva causa civile, generalmente denominata “interceptum”, nell’ipotesi in cui il reo fosse colto in flagrante nell’atto si estrarre fuori dal regno merci o animali per i quali era possibile l’esportazione previa soluzione dei “Regii diricti”, senza però che questi fossero stati corrisposti; il reo veniva punito con la confisca delle merci tassate e con sanzioni pecuniarie.

Era denominata causa criminale, invece, l’estrazione illecita di animali e merci considerate di particolare importanza per l’economia e la sicurezza del regno, e punita quindi con pene corporali; la cui esportazione era ammessa solo in casi particolari e con espressa licenza delle Regia Camera o del viceré.

E con il termine “contrabandum” veniva indicato specificamente il delitto contro ogni forma di bando che prevedesse pene corporali per chi esportasse fuori dal regno cose proibite.[4]

Gravissimo era considerato il crimine di esportazione di cereali e di ogni tipo di alimenti, specialmente del frumento che era equiparato al delitto di “Lesa Maestà”. Tanto che il Rocco sosteneva che era più utile allo stato mantenere le vettovaglie che la pace.[5]

E nel regno di Napoli contro gli esportatori di grano, era prevista da una prammatica edita nell’anno 1597, la pena di morte,[6] La confisca del grano e degli animali o delle navi che erano stati adoperate per il trasporto.

La stessa pena, nel resto, era sancita negli altri stati con 2, così nella città di Roma, allo stesso modo nel regno di Milano, nello stato piemontese, nel regno di Francia.

Anche contro chi portava fuori del regno armi era interrogata la pena di morte; andavano compresi nel divieto di restrizione di armi: ”Archibugetti, seu pistole ancorché siano maggiori di tre palmi, accettulli, seu accette piccole, balestre piccole a pozone…, brocchieri, scudi, o rotelle, cappelli forti, seu elmi o cimieri, canne di picche, pistoni, cherubini, chiave di pistole, cortelli a fronde di olivo, cortelli pontuti, cortelle, storte minori di tre palmi, daghe, giacche di ferro, lorica seu corazza, maniche di maglio, mezze spade, pistolesi, pugnali, pianette, piombate, petti di ferro, spade lunghe, col fodero tagliato, stiletti, smagliatori, scoppette o rota, minor di tre palmi, scoppette a grillo minor di quattro palmi, mazze ferrate, ferri puntuti atti ad offendere, pontaroli, terzaruole, cortelli lungi più di un palmo, guanti di maglie”.[7]

Per gli esportatori di seta senza licenza se nobili la pena stabilita era il confino, se plebei era di dieci anni su una “trireme”;[8] oltre dieci ducati per ogni libbra di seta ed il sequestro della stessa.

Contro coloro che esportavano illecitamente polvere pirica, salnitro e zolfo la pena era di dieci anni di confino o di remeggio, secondo la stessa distinzione prevista per i contrabbandieri di seta, oltre altre sanzioni poste ad arbitrio della Regia Camera.

Diversamente per coloro che conducevano fuori dalla città di Napoli pane, per mare o per terra, la pena di relegazione o di remaggio era di tre anni, oltre al sequestro del pane e delle navi o degli animai utilizzati per il trasporto.

Contro gli esportator di cavalli, giumente e puledri di razza era sancita insieme con la confisca degli stessi, la pena del confino in perpetuo e di diecimila ducati pere i nobili, o l’esilio in caso non avessero voluto pagare; per i plebei la pena era del trireme a vita. Se il delitto era commesso da ufficiali regi, questi erano puniti con la pena dell’ultimo supplizio.

Gli esportatori degli altri animali, quali cavalli non di razza, vacche, buoi, pecore, porci, erano puniti con il sequestro degli animali e la multa di mille ducati, se sorpresi senza licenza.

Anche per coloro che esportavano zafferano o lana, senza che fossero state corrisposte le regie imposizioni, era previsto il sequestro del carico e la multa di mille ducati.

La stessa pena era sancita per l’estrazione illecita del lino.

Contro i contrabbandieri d’oro e d’argento era stabilita la pena del confino o del remeggio a vita, il sequestro del carico e degli animali o delle navi utilizzate per il trasporto, e per gli stranieri era prevista anche la confisca dei beni posseduti nel regno.

Per chi invece, portava fuori de regno monete d’oro e d’argento emesse nel regno o in Ispagna, anche se tagliate o diminuite di peso, era sancita la pena di morte e la confisca di tutti i beni.

La stessa pena era inflitta a chi fabbricasse e vendesse armi agli infedeli nel regno o fuori di esso.

Per gli esportatori d’olio non muniti di licenza, era prescritta la pena del sequestro dell’olio e di dieci ducati per ogni sestario,[9] oltre dieci anni di confino se nobili o di trireme se plebei; se si trattava di baroni, essi venivano sospesi dalla loro giurisdizione. Il proprietario ed il comandante della nave dove era stato trasportato l’olio, venivano puniti con la pena di morte, i marinai con dieci anni di trireme.

Nemmeno il vino poteva essere trasporto fuori del regno senza licenza della Regia Camera, per i trasgressori era prevista la pena del sequestro del vino e di mille ducati di multa al proprietario, otre ad altre pene ad arbitrio della Regia Camera, secondo i bandi emanati da essa nel 1651 e ne 1653.

Coloro che estraevano fuori dal regno tabacco senza licenza degli ufficiali degli arrendamenti, erano puniti con la confisca dello stesso e con tre anni di relegazione per i nobili o di trireme per tutti gli altri.

Infine, era punita con la perdita del carico e con altre sanzioni pecuniarie l’esportazione dal regno, per mare o per terra, di mandorle, noci, castagne, frutta secca, salumi, maccheroni, aceto, riso, zucchero, legumi, formaggio, lupini, olive, pepe, sementi, canapa, spago, botti vuote, tavole, legnami, piombo, stagno e di ogni altra cosa per la cui estrazione dovevano essere preventivamente corrisposti i relativi debiti di spedizione, senza che questi fossero stati assolti.

3. Importanza della flagranza nel crimine di contrabbando e la cattura del reo

Era definito “colto in flagrante crimine di contrabbando”, colui che veniva sorpreso nell’atto stesso del delitto, o che veniva scoperto presso i confini del regno, dove verosimilmente era sul punto di esportare cosi proibite, o che era catturato non lontano dal luogo del delitto commesso.

Ed il diritto comune, che pure stabiliva che dovesse essere punito chiunque portasse furi dal territorio del regno qualsiasi merce vietata, richiedeva che l’atto fosse perfetto e consumato; per questo non considerava colto in flagrante colui che veniva trovato mentre trasportava le cose proibite in un luogo lontano dal confine. Anche perché come notava Prospero Farinacci, questi avrebbe potuto affermare di recarsi in altro luogo all’interno dello stato, o che pentito stava recedendo dall’azione delittuosa.[10]

Così avvertiva la regia prammatica pubblicata[11] dal viceré Cardinale Zappata nel 1622: “s’intenda consumato il delitto di estrazione e per mare, eo ipso, che sarà ritrovata la moneta sopra li vascelli o sora le persone imbarcate in essi… e per terra s’intenda consumato il delitto dell’estratione, quando si è ritrovato l’estrahente con la moneta il loco vicino alli confini, dove verisimilmente si debba credere che detta moneta era per estrahersi”.

Se l’inquinamento non era stato sorpreso in flagrante, veniva rimesso all’arbitrio del giudice procedere alla cattura quando l’accusato aveva residenza o domicilio nella regia giurisdizione, anche se non vi fossero indizi.

Tuttavia il giudice doveva astenersi dalla cattura indebita e se faceva condurre in carcere degli innocenti poteva essere punito. Per questo, ricordava il Mausonio,[12] non si perveniva alla cattura del reo se non risultasse evidente il delitto, o non sussistessero chiari indizi.

Doveva invece procedersi alla cattura, anche senza flagranza, quando l’inquisito no si trovava sotto la regia giurisdizione, me era uno straniero.

Nello stesso modo bisognava agire quando si trattava di esportazione d’oro e d’argento, in moneta o in massa, cavalli e puledri di razza, armi, frumento e nelle altre ipotesi in cui andavano irrogate pene corporali; per cui non solo doveva essere inflitta la pena agli esportatori che fossero stati colti in flagrante, ma anche se il delitto fosse stato comprovato da testimoni dopo che il fatto era accaduto.

Come ricordavano una prammatica del 1581 sull’esportazione di cavalli: “…tanto se saranno presi in flagranti, quanto che verificandosi haverli estratti”, ed una del 1582 sul divieto di esportazione d’oro e d’argento: “Volemo, che non ostante che non siano trovati in fraganti li delinquenti siano puniti ogni volta si troverà haver contravenuto al bando”, ed ancora: “…ma volemo che basti prova legitima di essere estratti”.

Invece, per quanto concerneva l’estrazione illecita degli altri animali o delle altre cose, le varie prammatiche che contenevano le pene, non prevedevano specificamente che fosse possibile procedersi per legittime prove anche dopo che il delitto era stato consumato. Per cui mentre parte della dottrina sosteneva che era possibile instaurare il processo non solo quando i delinquenti fossero stati catturati in flagrante, ma anche se attraverso testimoni fosse stato constatato il delitto; altri affermavano, più restrittivamente, che solo nei casi espressamente previsti dalle prammatiche era possibile procedersi per testimoni.

Competente a procedere alla cattura del reo, anche non sorpreso in flagrante, ed a svolgere il relativo processo informativo erano il Commissario Generale dei Contrabbandi ed il Capitano della “Rea Grascia”, o “Dux Annonae”, del territorio in cui l’estrazione era stata perpetrata.

4. Evidenza del corpo del delitto, confessione del reo, supposizioni ed indizi nel crimine di contrabbando

 

Anche il corpo del delitto doveva risultare evidente perché, fosse possibile pervenire alla condanna del reo, altrimenti non poteva procedersi nemmeno a1 suo esame né alla tortura. Per cui in caso di crimine di estrazione di monete, sempre se il reo non fosse stato colto sul fatto, i testimoni dovevano esser esaminati sul riconoscimento di quelle; dovevano deporre sulla loro qualità, se fossero d’oro o d’argento, sul valore, sulla forma.

Se invece il delitto consisteva nell’estrazione di cavalli dirazza, i testimoni dovevano deporre sui segni, sul pelo, sulla statura o sulle altre cose che occorrevano alla identificazione del corpo del reato.

Né questo poteva essere sostituito dalla semplice confessione del reo, poiché se il corpo o il genere del delitto non appariva anche da altro, il reo catturato non poteva essere condannato, in quanto dalle sue sole parole non poteva essere riconosciuto il reato. Osservava il Mausonio:[13] “Non est in potestate delinquentis confiteri delictum”.

La confessione del reo comprovava però il corpo del delitto, quando concorrevano con essa altri indizi o condizioni; come l’ipotesi in cui l’inquisito avesse fama di contrabbandiere e fosse solito compiere simili delitti, o se fosse stato visto recuperare il corpo steso del reato in altro luogo, oppure se fosse stato catturato in flagrante in un sentiero nascosto se fosse stati visto fuggire guadando un fiume, o nascondersi in un folto bosco.

Invece nei delitti di esportazione di merci facilmente occultabili e quindi difficili da provare, ed in quelli più gravi, poteva procedersi anche per supposizioni ed indizi ad arbitrio del giudice.

Il più frequente indizio in base al quale questi pote4va dare inizio al processo istruttorio era offerto dalla dichiarazione di un testimone oculare. Comunque esso per la maggior parte della dottrina non poteva costituire prova per la tortura. Ricordava infatti il Mausonio, il quale definiva il tribunale processo di contrabbando “Tribunal vindictae”: “In questo genere di delitto, nel quale nutriamo molti sospetti sulla sostituzione e sulla falsità dei testi, giammai procedersi alla tortura in base alla testimonianza di un solo teste a meno che non fosse da conosciuto, o idoneo,[14] poiché il giudice è tenuto ad informarsi sulla qualità e sulla condizione dei testimoni…”; ed ancora: “…i testimoni che depongono in favore del regio fisco per lo più son illetterati che firmano la loro deposizione col segno della croce e Dio Ottimo Massino sa se testimoniano il vero o se sono tali quali si dicono”.[15]

Notava inoltre Prospero Farinacci,[16] che la sola deposizione di un testimone non poteva avere carattere determinante anche per la particolare natura del delitto nel quale andavano considerati tre momenti: uno iniziale, in cui l’accusato si allontanava dal luogo dove aveva ricevuto le merci da portare via; uno intermedio in cui costui giungeva in luoghi sospetti portando le cose vietate; ed uno finale in cui l’accusato vendeva le merci nei luoghi proibiti.

Se il teste aveva assistito al primo o al secondo momento non poteva essere definito testimone oculare del delitto, ma testimone che deponeva su di un atto prossimo al delitto. Né, per quel che riguardava il terzo momento era tale, se ad esempio, avesse visto l’accusato vendere cavalli a Roma, oppure contare monete proibite dalle regie prammatiche; in questo caso egli doveva essere definito testimone di un atto inerente al delitto.

Altro indizio poi era offerto dalla dichiarazione extra-giudiziale del delinquente che aveva affermato di avere trasgredito le norme delle regie prammatiche che vietavano le esportazioni illecite, pur senza fare menzione del luogo e del tempo del delitto.

Per aversi prova per la tortura in questo caso, però era necessario che la confessione fosse confermata da due testimoni idonei e degni di fede, che dovevano deporre insieme sul luogo, sul tempo e sulle persone.

Ulteriore indizio, infine, poteva risultare dalla fuga dell’inquisito.

Solo la fuga volontaria e pretestuosa, tendente a nasccondere le meri vietate, poteva però costituite prova valida per la tortura ed anzi per la condanna dell’indiziato, giacché in questo caso si aveva vera e propria flagranza di delitto. Quindi se essa fosse stata provocata dal timore de nemici o dei ladroni, si doveva dapprima verificare il dolo e l’illiceità delle merci trasportate, per poter poi condannare i fuggiaschi.

Né poteva costituire indizio per la tortura del complice detenuto, la fuga del complice latitante.

Osservava ancora Mausonio[17] che spesso la fuga e la latitanza anche dell’inquisito innocente, erano giustificate dalla particolare crudeltà del Tribunale dei contrabbandi e dalla voracità di coloro che catturavano o permettevano la cattura dei contrabbandieri, spinti più dall’interesse di riempire la “sacca”, che da quello di punire i delitti; per le forti ricompense concesse e per la possibilità di impossessarsi di parte delle merci confiscate.

Così sanciva, infatti, un’ordinanza del 1622 della Regia Camera: “…promettono all’accusatore da contravenienti delli ordini e Pragmatiche Regie la parte giusta, che a loro competerà per l’intercetti che per loro accusa si faranno, oltra che si teneranno secreti”.

E così dichiarava una prammatica dello stesso anno vietante l’estrazione di monete d’oro e d’argento dal regno: “… sotto pena di morte naturale e della confiscatione di tutti loro beni, oltre di perdere l’intercetto, il quale volemo s’applichi la metà d’esso al denuntiante, e non essendoci denuntiante a quello, o quelli, che piglieranno l’intercetto”.


[1] Gonzalez de Salcedo, Tratado iuridico-politico del contrabando, Madrid 1654, pag. 2.

[2] Carlo Calà, De contrabandis clericorum, Napoli 1646, pag. 3

[3] Francisco Rocco, Tractatus de Officijs, Neapoli 1669, Rubrica XIV, pag. 260.

[4] Così Florido Mausonio, in Opusculum Criminale de Contrabandis, Venezia 1654, p. 2. – Francesco Giuseppe De Angelis, Tractatus Criminalis de Delictis, Venezia 1692, p. 62.

[5] Op. cit., p. 261.

[6] 5)”… Ne si debba estrahere dal presente Regno fuor di esso per mare, né per terra quantità alcuna di grani e di altre vittovaglie senza espressa nostra licenza, in scriptis, obtenta sotto pena alli contravenienti di morte naturale”.

[7] De Angelis, op. cit., p. 16.

[8] Nave da guerra a tre ordini di remi sovrapposti.

[9] Unità di misura equivalente circa a mezzo litro.

[10] Praxis et Theoricae Criminali, Lione 1616, Tomo III, pag. 38

[11] Contenente il divieto di estrazione di monete d’oro e d’argento.

[12] Op. cit., p. 4.

[13] Op. cit. p. 16-

[14] Erano generalmente considerati testimoni idonei gli ufficiali del fisco, i guardiani della dogana ed i capitani di giustizia.

[15] Traduzione da op. cit., pp. 33 e 34.

[16] Op. cit. Tomo II, cap. 37

[17] Op. cit. p. 36

Tesi scritta a Napoli nel 1983 da Paolo Melchiorre e lavoro curato da Vincenzo Giannone

segue……

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