Alta Terra di Lavoro

già Terra Laboris,già Liburia, già Leboria olim Campania Felix

Il Barocco di Jan Fabre di Adriana Dragoni

Posted by on Lug 3, 2019

Il Barocco di Jan Fabre di Adriana Dragoni

L’artista fiammingo in mostra a Capodimonte, partendo da un “corallo” per parlare e raccontare di sé e di noi, e della nostra vita di esseri umani

Il Barocco di Jan Fabre L’artista fiammingo in mostra a Capodimonte, partendo da un “corallo” per parlare e raccontare di sé e di noi, e della nostra vita di esseri umani Adriana Dragoni pubblicato domenica 30 giugno 2019 Che cos’è? Un cuore? La domanda è di una visitatrice che sta guardando, nella reggia-museo di Capodimonte, un’opera di Jan Fabre. Verrebbe voglia di risponderle di no. Ma non si può negare che quell’oggetto in mostra abbia una forma che molto si avvicina a quella di un cuore. Eppure non è un cuore. Questo oggetto di rosso corallo si ispira alla realtà ma diventa altro, rifugge dall’imitazione e diventa arte, pulsa di vita propria e si trasforma in simbolo, di un intrico di pensieri, sensazioni, sentimenti profondi, viscerali, carnali, veraci, indistinti. Jan Fabre, artista fiammingo di fama mondiale, in questa mostra ricchissima, che, fino al 15 luglio, sarà a Capodimonte, ci parla a lungo e racconta di sé e di noi, della nostra vita di esseri umani. Rappresenta cuori, teschi, crocifissi, spade, pugnali, la guerra, la cattiveria, la bellezza della forza, l’ironia dell’intelligenza. In un insieme di colori luminosi: il bianco tinto di rosso nei disegni tracciati col sangue, il luccicore dell’oro nelle opere eseguite dall’artista dal ’70 in poi, il brillio del corallium ruber del Mediterraneo nelle dieci recentissime opere fatte apposta per Napoli. Questo corallo rosso viene lavorato, in antichi laboratori, nella cittadina vesuviana di Torre del Greco. Sembra abbia un valore esoterico, è considerato un portafortuna e ha una precisa origine nella mitologia. Perseo, figlio di Giove e della bellissima Danae (di lei c’è un ritratto, opera di Tiziano, proprio a Capodimonte), uccide la terribile Medusa, ne prende il capo sanguinante e lo offre a Poseidone, mentre nelle acque del mare scorrono gocce di sangue: il rosso corallo.

A Capodimonte, Fabre già era venuto con una mostra di opere luccicanti del verde cangiante di tantissimi piccoli gusci di scarabei: una grande spada, simbolo di coraggio e di potenza, e un grande quadro che, con il logo delle ferrovie del Congo Belga, sintetizzava la conquista gloriosa e terribile di quella terra e dei suoi abitanti. La mostra era stata curata da Laura Trisorio e dal direttore di Capodimonte, Sylvain Bellenger, che la aveva inserita nella serie “Incontri sensibili”. E vi aveva aggiunto, evidenziandone le analogie, quattro teche che ricordavano l’uso, soprattutto seicentesco, delle Wunderkammer, stanze o scatole di oggetti naturali o artificiali interessanti per loro strane peculiarità. Il Seicento è un secolo di investigazioni sulla natura e di alchimia, di scienze e di religione, di sangue e di guerre. È il Barocco. Fabre ha una sensibilità analoga, tanto da poter essere considerato, forse, un artista barocco contemporaneo. Che suggerisce, con le sue opere, la contemporaneità della storia e quindi, affermando che il passato non passa mai, l’inesistenza di un meccanico tempo progressivo. Anche Stefano Causa, curatore della mostra odierna insieme a Blandine Gwizdala, accosta diverse altre opere a quelle di Fabre, rivelandone le analogie e rafforzandone il significato.

Così aggiunge diversi quadri del Seicento fiammingo, che rappresentano quei peccati capitali che costituiscono anche gli umani piaceri della vita. Contrasti dell’animo umano, che Fabre non manca di evidenziare nelle sue opere. E ancora a Capodimonte continua l’accostamento diretto tra Fabre e il Seicento, con la contemporanea mostra “Caravaggio e Napoli”, fino al 15 settembre. Ancora una volta, Bellenger accoglie a Napoli un grande artista evidenziandone i legami con la città. Se Fabre le si avvicina con l’uso del corallo napoletano, la mostra su Picasso svelava come la cultura popolare napoletana abbia influito su di lui. Caravaggio, Picasso, Fabre. Tutte e tre forti personalità rivoluzionarie, lontane dal classicismo accademico. Che è espresso, invece, in contemporanea, sempre nella reggia di Capodimonte, fino al 30 settembre, in “Un restauro in mostra”, che svela il meccanismo della costruzione delle sculture di Antonio Canova: dal bozzetto in terracotta al gesso precisamente misurato con i calcoli numerici occorrenti alla equipe dei marmorari che realizzavano le opere del Maestro. Due mondi diversi, due modi diversi di concepire la tecnica, l’arte e l’umanità.

Adriana Dragoni

fonte http://www.exibart.com/notizia.asp?IDNotizia=62796&IDCategoria=52

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I napoletani per Bellenger napoletano

Posted by on Giu 22, 2019

I napoletani per Bellenger napoletano

Sulla stampa un profluvio di articoli trattano di crisi dell’Europa: crisi economica e politica ma non manca la crisi culturale. Anzi – alcuni dicono – tutto comincia da lì: dalla incapacità dei cosiddetti intellettuali di liberarsi dalle pastoie del ragionamento astratto e di organizzare mentalmente un pensiero ampio e articolato della realtà in movimento. Un movimento che appare caotico. Si può da questo caos ricavare un’armonia, un cosmos? Più in generale, si parla di un tramonto dell’Occidente che sembra preludere alla fine di una civiltà. Eppure in questo marasma sorgono, qua e là, bagliori di vitalità.

Anche a Napoli, una città generalmente tenuta ai margini del progresso e della modernità, e forse proprio per questo. Oggi, appunto qui si possono trovare i sintomi di un fermento culturale nuovo, che viene attribuito anche alla rivisitazione storica che vi si sta svolgendo da alcuni decenni, prima quasi in sordina, poi, via via, diffusa nella consapevolezza di un sempre maggior numero di persone.

Che invece si trovano ad avere a che fare con una stampa che dipinge generalmente la città come luogo di degrado e di camorra. Così appare nei quotidiani, nelle riviste, nei libri, anche scolastici e universitari, nelle esternazioni di molti intellettuali. In proposito alla TV, pochi giorni fa, Klaus Davi raccontava: “A Milano, vicino casa mia, in cento metri, vi sono stati due agguati mafiosi. Ne hanno parlato le TV nazionali? Se fosse successo a Napoli, la notizia avrebbe tenuto banco per giorni”. 

Nel frattempo si afferma, in alcuni episodi, una reazione a questo stato di cose. Che finalmente Napoli, un tempo per cinque secoli libero ducato e per sei secoli capitale di regni, dalla sua storia non più contraffatta, abbia acquistato una nuova dignità e alzato la testa? Un episodio notevole tra gli altri è il successo di una petizione popolare, non promossa da alcun partito, a cui spontaneamente hanno aderito cittadini di varia cultura ed estrazione sociale: dal cattedratico, all’operaio, dal disoccupato, al professionista, alla casalinga.

Napoli si è mossa osservando semplicemente la realtà e ha dimostrato la sua stima per Sylvain Bellenger, il cittadino francese che ha espresso, attraverso il suo lavoro di Direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte, svolto con onestà, competenza e intelligenza esemplari, il suo appassionato amore per la città, dando di nuovo bellezza e dignità a uno dei suoi luoghi più significativi.

Perciò il Comitato “Per Sylvain Bellenger cittadino napoletano”, composto da Agnese Cervone, Adriana Dragoni, Silvana Ottazzi, Paola Pozzi, Renato Rocco e Giuseppe Romeo, ha promosso una raccolta di firme per una petizione popolare al Sindaco di Napoli Luigi De Magistris, affinché sia concessa la cittadinanza onoraria a Sylvain Bellenger. L’iniziativa ha avuto la partecipazione entusiasta dei cittadini, tanto che sono state raccolte circa un paio di migliaia di firme, sia in veste cartacea che digitale e tante di più ve ne sarebbero state se gli organizzatori non avessero posto un limite al loro impegno.

Domani, venerdì 21 giugno, alle ore dieci, sarà, a nome del Comitato, presentata alla Segreteria del Sindaco la documentazione dell’iniziativa.

Bellenger ha riorganizzato l’amministrazione delMuseo, mentre ha stimolato l’interesse internazionale per Napoli e per Capodimonte. Tante sono le iniziative da lui prese per valorizzare nel mondo la cultura napoletana: dalla promozione della cultura popolare con l’associazione MusiCapodimonte, al Festival della Cultura Popolare dell’Italia Meridionale, alla Scuola di lingua napoletana ecc. Con la mostra “Parade”, di Picasso, evidenziava l’influenza di Napoli su questo artista. Così, nell’attuale mostra “Caravaggio-Napoli”, anche nel programmatico titolo “paritario”, afferma l’influenza della nostra città sull’artista lombardo.

Mentre nella mostra, anch’essa in questi giorni a Capodimonte, dell’artista fiammingo Jan Fabre vi sono dei meravigliosi oggetti fatti, su suggerimento di Bellenger, con il corallo rosso lavorato a Torre del Greco. E non si può dimenticare l’impegno ambientalista di Bellenger, che si è espresso soprattutto nella incontestabile positiva trasformazione del Real Bosco, da posto di immondizia e di drogati, in un luogo meraviglioso, ora considerato il più bel giardino barocco d’Europa, in cui si possono ammirare le piante rare che i Borbone importarono da ogni parte del mondo.

Ora il Real Boscoè anche fornito di panchine, campetti di calcio e di rugby, ed è visitato, in tutta sicurezza, da molte centinaia di migliaia di persone all’anno. Qui Bellenger ha ripristinato il “Luglio Musicale” del tempo del sovrintendente Raffaello Causa, spesso con musiche di grandi compositori napoletani del Settecento, ha restaurato la Fontana del Belvedere, ha ristrutturato la chiesetta e i sedici ruderi borbonici, rendendoli, via via, funzionali con iniziative fatte insieme all’Università Federico II, con la collaborazione di The Edith O’Donnel Institute di Dallas, dell’Université la Sorbonne e del Porto di Napoli ecc… ponendo così le basi di un ampio sito scientifico e culturale che si auspica possa svilupparsi e durare nel tempo.

Tra gli aderenti alla petizione promossa dal Comitato “Per Sylvain Bellenger cittadino napoletano” si trovano nomi di spicco quali quelli di Aldo Masullo, professore emerito di Filosofia alla Federico II, dell’architetto Italo Ferraro, esimio studioso delle stratificazioni urbane di Napoli, di Andrea Viliani, il brillante Direttore del Madre,  di Mimmo Iodice, Maestro dell’arte fotografica,dell’ex magistarto scrittore, storico ed editorialista Pietro Lignola, di Antimo Cesaro, professore di Giurisprudenza alla Federico II, di Alessandro Pasca, stimato Direttore del Pio Monte della Misericordia, del magistrato Edoardo Vitale, Presidente del Movimento Sud e Civiltà, dello scrittore e storico Gennaro De Crescenzo, Presidente del Movimento Neoborbonico, dello scrittore Giuseppe Rippa, direttore di Agenzia Radicale e Quaderni Radicali, dell’editore-libraio Tullio Pironti, del famoso giallista Maurizio De Giovanni, della gallerista Laura Trisorio, della gallerista Maria Pia Incutti, Presidente della Fondazione Plart, dell’avvocato Gennaro Famiglietti, presidente dell’Istituto di Cultura Meridionale, console onorario della repubblica di Bulgaria e coordinatore nazionale della Fenco, di Armida Filippelli, dirigente del MIUR, dell’avvocato penalista Ivan Filippelli, dell’avvocato Anna La Rana, presidente dell’Associazione Giuriste Italiane (AGI), della professoressa Annamaria Scardaccione, più volte presidente dell’associazione femminista internazionale Zonta, dell’architetto Valter De Bartolomeis, dirigente dell’Istituto Caselli e della Real Fabbrica di Ceramica di Capodimonte e docente universitario di design, del professore architetto Alessandro Castagnaro, docente della Federico II e presidente nazionale dell’Associazione Nazionale Italiana Ingegneri e Architetti (ANIAI), di Luigi RispoliUmberto Franzese, rispettivamente presidente e organizzatore del Premio Masaniello, della dottoressa Loredana Salomone, presidente dell’associazione culturale Centro Nuova Era, circolo dell’Arci Natura, del professore architetto Franco Lista, già membro del Consiglio Nazionale del MIBAC, di Francesco Divenuto, già professore di Storia dell’Architettura della Federico II, di Isabella Valente, professoressa di Arte Contemporanea della Federico II e di molti altri ancora.

fonte http://www.agenziaradicale.com/index.php/rubriche/arte-e-dintorni/5851-i-napoletani-per-bellenger-napoletano

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La mostra a Capodimonte/Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che rifiutano di relegare la visione del mondo in uno spazio-scatola

Posted by on Apr 29, 2019

La mostra a Capodimonte/Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che rifiutano di relegare la visione del mondo in uno spazio-scatola

Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, dipinge opere meravigliose e inquietanti. Anche nella sua biografia c’è inquietudine, oscurità e mistero. Nato a Milano nel 1571, vissuto poi a Caravaggio, paese d’origine della sua famiglia, compare a Roma, nel 1595, quale esperto pittore, già molto stimato da notabili e alti prelati della Roma papalina, che gli commissionano opere importanti.
Eppure, ed è molto strano, non si conosce nessuna sua opera dipinta prima del suo soggiorno romano. I critici hanno studiato a fondo le sue pitture romane e vi hanno evidenziato influenze, per quanto ipotetiche, di vari pittori lombardi esaltando, così, l’importanza della pittura lombarda. Viceversa, sono stati molto poco studiati i rapporti tra le sue pitture realizzate a Napoli e l’ambiente sociale e artistico di questa città. Anzi, ci è affrettati ad affermare soltanto l’influsso di Caravaggio sui pittori napoletani, che quindi sono stati definiti tout court caravaggeschi.
Ma ecco, a Capodimonte, fino al 14 luglio, la mostra Caravaggio Napoli, che già nel titolo “paritario” si presenta come stimolo ad approfondire questo argomento, iniziando un nuovo discorso. E che, seduttiva e spettacolare nell’allestimento, curato dallo stesso direttore della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger e dalla professoressa Cristina Terzaghi, può diventare una pietra miliare nella conoscenza di Michelangelo Merisi, della pittura seicentesca napoletana e, in fondo, pure di tutta la storia dell’arte.
Caravaggio arriva a Napoli nel 1606. E’ in fuga da Roma, dove è stato condannato a morte perché, in una rissa, ha ucciso un uomo. Napoli è il suo rifugio. Vi resterà per quasi un anno. Vi ritornerà nel 1609 e se ne allontanerà l’anno dopo per sfuggire a un misterioso killer; ma nella fuga, invece, troverà la morte.
Napoli, all’epoca, è una splendida capitale spagnola e la città di gran lunga la più popolosa d’Italia. In quegli anni è in piena attività anche edilizia e sta sostituendo il palazzo reale aragonese con un altro più grande e più bello, che dovrebbe accogliere Filippo III d’Asburgo, il Re, che però non vi giungerà mai. (lo stesso palazzo, ristrutturato e modificato, ora si trova nella piazza del Plebiscito, chiamata, un tempo, Largo di Palazzo)
A Napoli, all’epoca, c’è un’ampia e vivace cerchia di letterati e di artisti, tra i quali Caravaggio è accolto. E possiamo immaginarlo dialogare con loro in un proficuo scambio di idee. Si ritrovano nella Taverna del Cerriglio. Tra gli avventori, c’è gente di nobile famiglia, come il grande Giovan Battista Basile, che la dice “casa de li spasse, dove trionfa Bacco, dove si scarfa Venere e s’allonga la vita ‘e chiù ‘e cient’anne”.
Ma la taverna è frequentata anche da povera gente: è un ambiente napoletano, in cui ricchi e poveri si mischiano, perché il denaro e il ceto sociale non sono, per i napoletani di un tempo, il discrimine che li divide. Ricchi e poveri appaiono insieme, mischiati tra loro, anche nella prima opera che il pittore lombardo dipinge a Napoli: Le sette opere di misericordia.

E’ un’opera cruciale, che testimonia un cambiamento profondo nella concezione del mondo del sensibile artista lombardo. Nel dipinto c’è la rappresentazione della realtà e dell’anima di un vicolo napoletano. Le persone rappresentate, anche la Madonna, hanno la fisionomia della gente di questo popolo.
E qui Caravaggio è libero dall’impedimento della costruzione prospettica del canonico spazio-scatola di derivazione toscana. Alla quale, pur obbedendole, si era già dimostrato insofferente quando, ad esempio, nella “Sepoltura di Cristo” (Pinacoteca Vaticana), dipingeva uno spazio in diagonale, mettendo uno spigolo del sepolcro in primo piano. Qui, invece, gli spigoli delle costruzioni fanno da incerto sfondo, mentre spingono in avanti la folla portata in primo piano. E’ lei che crea la realtà dello spazio, che qui è formato dai movimenti e dai gesti di ciascuno. Non c’è bisogno di contestare lo spazio canonico criticandolo. Basta crearne un altro. Napoli e Caravaggio: due anime eretiche che, libere dal modo di pensare canonico, sono restie a immettere la loro visione del mondo nei ristretti limiti di uno spazio-scatola.
Già Antonello da Messina (1430/1479), allievo del napoletano Colantuono (1420/1460),  aveva oscurato lo spazio nei ritratti e nella “Annunciata” di Palazzo Abatellis  e realizzato, poi, nel “San Girolamo nello studio”, una sorta di spazio in movimento, come chiaramente testimonia, tra l’altro, il disegno delle mattonelle del pavimento. E, nei polittici di Cicino da Caiazzo e del Maestro di Sanseverino (a Capodimointe), la Madonna e i Santi hanno forme cinquecentesche ma vivono in un anomalo spazio d’oro, senza linee prospettiche (per la qualcosa i dotti li considerano arretrati).
Poi  Francesco Curia (1538/1616), maestro anche di Teodoro d’Errico (1544/1610), dipinge autonomamente e racconta, nell’Annunciazione” (a Capodimonte),  una sorta di sconvolgimento spaziale creato dall’annunzio dell’angelo. Le “Sette opere di misericordia” purtroppo non sono nell’attuale mostra, la quale, tuttavia, è ugualmente affascinante, come testimonia la straordinaria affluenza del pubblico, rapito dalla sua  scenografia favolosa, che lo introduce in quella pittura seicentesca che scandaglia con una sensibilità “viscerale”, tutta napoletana, la sofferente anima umana.
Ma questa mostra è anche molto importante per gli studiosi. Perché, subito dopo l’arrivo a Napoli, Caravaggio, come riferisce Francesca Santucci, incomincia a “rinvigorire gli scuri”. Il che non avviene per una superficiale ragione estetica. In questo modo, infatti, lui elimina del tutto lo spazio tradizionale. E dipinge il buio. Quel buio della sua anima tormentata dal peccato e dal rimorso, quel buio da cui con forza fa risaltare i corpi illuminandoli. E sono i corpi dei Cristi ma anche quelli dei carnefici, perché la luce è vita e la vita è fatta così, di luce e ombra.
Caravaggio ora cerca soprattutto la verità e considera nei personaggi rappresentati il loro essere fatto di carne e di sangue, di energia luminosa e di buio. Sicché tende a liberare gli uomini dagli abiti, che li rinchiuderebbero in un ruolo, e ama i loro nudi robusti che a Napoli sono quelli reali dei marinai e degli scaricatori di porto.
Nella mostra vi sono anche i dipinti dei napoletani. Tra questi, almeno  Battistello Caracciolo (1578/1635) e Carlo Sellitto (1581/1614) sono troppo veri e grandi artisti per essere considerati soltanto dei semplici seguaci di Caravaggio. Tra l’altro, come rivela la professoressa Terzaghi, esiste un documento di pagamento, girato da Caravaggio a Battistello, che testimonia che “il rapporto tra i due sommi pittori non può essere solamente immaginato in termini di fascinazione stilistica ma ha anche un’origine biografica e strettamente professionale”.
Possiamo anche notare che, mentre in Caravaggio c’è la tendenza a fare risaltare i corpi dal buio, in Battistello c’è una tendenza diversa, che si realizzerà più compiutamente in Bernardo Cavallino (nato nel 1616 morirà per la peste del 1656, che falcidiò anche tanti artisti  napoletani). Cavallino immagina i corpi affondati nel buio, e,  accarezzandoli delicatamente, con una luce amorevole, li scopre e gli dà vita.
A questo punto  possiamo anche citare Picasso: “I buoni pittori copiano, i grandi rubano” e aggiungere: i sommi pittori s’influenzano l’un l’altro. Perché, se è chiara la consentaneità dei napoletani con il pittore lombardo, si  dovrebbe maggiormente approfondire se e come e in quale misura dall’ambiente antropologico e artistico napoletano questi sia stato influenzato, superando la preconcetta tesi della sua pretesa immunità da influenze siffatte. Forse questo potrebbe essere per gli studiosi l’impegno che questa mostra suggerisce.
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In foto, alcuni momenti della mostra ripresi da Francesco Squeglia: all’inaugurazione, con il direttore Bellenger, anche il presidente della Regione De Luca

LA MOSTRACaravaggio Napoli al Museo di Capodimontefino al 14 luglio 2019, sala Causa (piano terra), aperta tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.30 (compreso il mercoledì, tradizionale giorno di chiusura del Museo). La biglietteria chiude alle 18.30. Il biglietto della mostra dà diritto a un ingresso ridotto al Pio Monte della Misericordia e viceversa. Disponibili navette gratuite tra Capodimonte e Pio Monte della Misericordia messe a disposizione dal Comune di Napoli e dal Museo.

Prenotazioni e acquisti online
www.coopculture.it
Per saperne di più
http://www.museocapodimonte.beniculturali.it/

Adriana Dragoni

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Caravaggio-Napoli, conferenza stampa di presentazione della mostra alla Reggia-Museo di Capodimonte

Posted by on Apr 16, 2019

Caravaggio-Napoli, conferenza stampa di presentazione della mostra alla Reggia-Museo di Capodimonte

Nella Reggia-Museo di Capodimonte, la Sala Causa, dedicata al compianto sovrintendente Raffaello Causa, ha ospitato la conferenza-stampa di presentazione della mostra “Caravaggio-Napoli” (12 aprile – 14 luglio 2019). Anche stavolta un grande artista è messo in relazione con Napoli. Come già Pablo Picasso con la sua “Parade”, che riprendeva le figure della cultura popolare napoletana. Come pure Jan Fabre, tuttora presente a Capodimonte (fino al 15 settembre) con le sue opere di corallo rosso, lavorato negli antichi laboratori della cittadina vesuviana di Torre del Greco.

Il rapporto tra Napoli e Caravaggio si svolse in un soggiorno di 18 mesi in tutto, diviso in due tappe: nel 1606 e nel 1610, anno della sua morte misteriosa sulla spiaggia di Porto Ercole.

Non fu solo un dare da parte dell’artista alla città ma fu, forse soprattutto, un avere. Come ci dice lo stesso critico Roberto Longhi, che lo “riscoprì” dopo che per secoli era stato dimenticato, e si domanda quanto grande sia stata l’impressione che Napoli, all’epoca “immensa capitale meridionale, più classicamente antica di Roma stessa, e insieme spagnolesca e orientale” aveva potuto suscitare nel pittore lombardo.

Infatti forse la più bella, importante, rivoluzionaria delle sue opere è quella che dipinse appena giunto a Napoli: “Sette opere di misericordia”. Riprende la vita del vicolo napoletano, dove il pittore abitava. E così crea un nuovo spazio fatto dal movimento e dai gesti della gente, dalle persone stesse: forse la più grande rivoluzione iconografica del suo tempo. D’altronde quella era la Napoli vissuta anche dai pittori napoletani poi detti caravaggeschi. Questi guardarono e vissero la stessa vita del lombardo ed ebbero ed espressero con lui una consentaneità profonda di pensieri e sentimenti.

Perciò stupisce che alla mostra, pur bella e ricca, manchi appunto l’opera delle “Sette opere di Misericordia”. Certo la si può guardare andando a visitare la magnifica chiesa del Pio Monte della Misericordia, al centro storico di Napoli, così come hanno fatto i giornalisti oggi con una navetta messa a loro disposizione ad hoc.

Dicono che questa mancanza sia giustificata dalla preoccupazione che un’opera così bella e importante possa, con lo spostamento, deteriorarsi e che d’altronde è facile andare al centro storico per vedere l’opera. Ma chi conosce un po’ di queste cose sa bene che tante osservazioni possono farsi, e quindi tante conoscenze d’arte e di storia possono nascere, dal confronto ravvicinato delle opere.

Ci si è giustificati, da parte dell’opposizione, anche citando le spese troppo alte dell’assicurazione.  Eppure altre opere caravaggesche sono giunte in questa occasione a Capodimonte, come il Martirio di Suor Orsola dalla napoletana via Toledo  e altre da Rouen, da Madrid, da Siviglia e da Londra. 

Non molto tempo fa anche la “Flagellazione” di Caravaggio, conservata a Capodimonte, è mancata dal museo perché trasferita per qualche tempo altrove.  Molte pagine di giornale sono state riempite dalla questione. L’opposizione al trasporto delle “Sette Opere di Misericordia” è stato aspra ma le ragioni di questa opposizione non sono apparse convincenti e di buon senso. Tanto che persone di cui è riconosciuto il valore, come lo stesso soprintendente del Pio Monte Alessandro Pasca di Magliano e il musicista Riccardo Muti, si sono dichiarati indignati dalla speciosità di certi argomenti.

Eppure nella conferenza-stampa non si è parlato di questo. C’è stato solo un accenno sottinteso nelle parole del soprintendente del Pio Monte, che, ringraziato dal direttore del Museo Sylvain Bellenger (curatore della mostra con Maria Cristina Terzaghi) per la sua collaborazione e la sua lealtà, ha detto che non avrebbe mai immaginato che la sua collaborazione sarebbe stata così laboriosa.

Anche l’assessore alla Cultura del Comune di Napoli Nino Daniele dice che sarebbe stato favorevole a che l’opera fosse stata spostata al museo per la durata della mostra. Ma di rispettare le opinioni contrarie.

Forse è meglio non discuterne più, come suggerisce il presidente degli Amici di Capodimonte, avvocato Di Lorenzo: “Noi teniamo a che Sylvain resti a Napoli e possa continuare nella sua opera missionaria e illuminata in favore della cultura e della città. Quindi cerchiamo di non complicare le cose con polemiche a questo punto inutili”.

In quanto a noi, consideriamo un incubo il regresso della Reggia-Museo e del Real Bosco di Capodimonte alle condizioni ante-Bellenger. Il popolo napoletano vuole che Bellenger rimanga. Speriamo che possa rimanere. Altrimenti non saremmo in democrazia ma in quella che Aristotele chiamava “oklocrazia”, ovvero il comando della gente dappoco.

Adriana Dragoni

fonte http://agenziaradicale.com/index.php/cultura-e-spettacoli/mostre/5794-caravaggio-napoli-conferenza-stampa-di-presentazione-della-mostra-alla-reggia-mu

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“I giganti della montagna” sono la “Terra Promessa” di Pirandello

Posted by on Dic 27, 2018

“I giganti della montagna” sono la “Terra Promessa” di Pirandello

   “Est deus in Pirandello”. E il “complesso di superiorità” noi lo sentiamo a distanza, come il rabdomante sente l’acqua.

   Strano a dire, questo stesso complesso di superiorità, il suo potere radiante, contribuì a creare intorno a Pirandello una zona di attesa, per non dire di sospetto. Tali e tante erano state le “fregature”, che la “superiorità in arte” fu messa in osservazione. Presso i “sapienti”, presso i “migliori” diventò regola e disciplina ridursi e macerarsi, diffidare della superiorità, dirne “male”. E i pittori si limitarono a “bozzettare”, i letterati a “frammentare”, i poeti a dar fuori, in occasioni rarissime, versi minuscoli e a coppiette come le ciliegie.

   Il “ complesso di superiorità” non implica necessariamente “fare grande” Una “arte che rappresenta” non è mai “superiore”, per grande che sia il cuore dell’artista, per vasta che sia la sua anima. Arte “superiore” è “arte come passaggio ad un mondo superiore. E’ arte che risolve  ol problema della vita, che immette in una soluzione felice e immutabile.

   Luigi Pirandello fa parte di questi orgogliosi “traghettatori”. Sta in compagnia di Picasso, di Giorgio de Chirico, di Strawinski. Artisti che non si possono esaminare, che non si possono attaccare , tanto meno con gli strumenti comuni della critica : invulnerabili alla critica comune.

   L’arte, questa “soluzione superiore”, obbedisce a leggi precise, ad una sua etica ; contiene una sua armonia, una sua architettura, un suo galateo. Non basta “scoprire” il passaggio, indirizzarsi per quella via.

   Oltre che uomo del “passaggio”, è arrivato Pirandello alla “soluzione”, ha obbedito alle leggi, all’etica del mondo “superiore” ?

   Anche Pirandello, come Mosè, è morto in vista della Terra Promessa.

   “I giganti della montagna” sono la “Sua” Terra Promessa.

   Le idee “filosofiche” di Luigi Pirandello, il suo “parmenidismo”, l’equivoco tra apparenze e realtà,  a noi non interessano, non debbono interessare. Una maggiore scaltrezza avrebbe aiutato Pirandello ad evitare il “debole”, lo “scoperto” di esse idee ; gli avrebbe procurato più presto la simpatia dei “diffidenti”. Però perché i “diffidenti”,  per parte loro,  si ostinano a prendere alla lettera le idee “filosofiche” di Luigi Pirandello ?

   Queste idee sono i temi, i pretesti, diciamo addirittura i “trucchi” che alimentavano il “dramma” di Luigi Pirandello :  il “dramma del passaggio”: l’affannosa, allucinata ricerca di un’evasione da “questo mondo”, lo sbocco in un mondo “superiore”.

   Che l’opera di Luigi Pirandello sia “chiusa” nel dramma del passaggio, che la soluzione sia appena intravvista, ce lo dice l’angoscia continua, la volontà di speranza, la nostalgia inestinguibile, la tristezza, il “nero” che come una gran sete la divora.

   Comunque, nessun altro drammaturgo si è spinto così avanti verso il confine fra dramma e soluzione del dramma. Non certo il commediografo irlandese George Bernard Shaw, le cui qualità sono quelle, magnifiche e sviluppatissime, dell’uomo-scimmia.

   Non per nulla il nome “agrigentino” di Luigi Pirandello significa “angelo di fuoco”.

   Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen esordì con “Peer Gynt” e continuò con quegli “esami clinici” dell’anima borghese, che dettero nascimento all’ibsenismo: passò da una forma di adolescenza dell’anima alla curiosità senile e alla “burocrazia dello spirito”. Confrontata a “Peer Gynt”, l’opera prettamente ibseniana di Ibsen costituisce una rinuncia.

   In Pirandello avviene il contrario: dal secco pirandellismo, Egli sale, poco a  poco, alle aspirazioni supreme, alla volontà di grandezza, a quel gaudio poetico, che, quando è pieno, si manifesta pure con una forma di adolescenza nella vecchiaia.

   Segno di progresso e di ascesa.

   Non diremo che “I giganti della montagna”, opera incompiuta, intessuta di simboli e di allegorie, in una società dominata dai cultori della violenza e della forza bruta,sono il “Peer Gynt” di Pirandello, non lo diremmo anche senza la posizione opposta che questi due “lavori” occupano nell’opera complessiva dei loro rispettivi autori. Diremo che “Il giganti della montagna” sono la “Tempesta” di Luigi Pirandello, senza ombra, beninteso, di un neppur lontano sospetto di derivazione, ma per questa sola analogia, che tale è in entrambe queste opere l’autorità della poesia, che il poeta dimentica leggi, cànoni, freni, “condizioni umane”, e vive di là dal mondo, nella vergine libertà di un nuovo mondo conquistato.

   Gli effetti della poetica autorità si avvertono subito. La parola erbosa, terrosa, rugginosa di Luigi Pirandello si è fatta distanziare da un verbo  più sottile e trasparente, un verbo nel quale traccia non rimane della rozzezza del sesso (l’insopportabile “sesso” delle parole di un Verga, di un Capuana) e prelude al divino ermsfroditismo del linguaggio dei poeti: “Il giorno è abbagliato; la notte è dei sogni e solo i crepuscoli sono chiaroveggenti per gli uomini. L’alba per l’avvenire, il tramonto per il passato”.

   Avremmo preferito che Pirandello rinettasse la propria opera di qualche macchiolina estetistica: la “Dama rossa che appare come fiamma”, alcune fantasie troppo fantastiche e però estetizzanti, qualche “sicilianeria” nei nomi, queste pure estetizzanti, come Sgricia, Cuccurullo, Quaquèo…

   Avremmo desiderato, del pari,la completa abolizione di delirio e dolorismo nel personaggio della contessa. Però in quanti siamo cui certo “pathos”femminile fa accapponare la pelle ?

Aurunci:la parola deriva dal latino “aurum”, oro, perché si viveva nell’ “età dell’oro”. La contrada era un lacerto di paradiso terrestre, una plaga magica, benedetta, felice e fertile, dall’eterna primavera. Era il giardino delle Esperidi, dagli orti prosperosi di aranci e di limoni, una vera e propria Arcadia, una terra fatata, un lembo di terra promessa, un dono divino per il Meyer.

Alfredo Saccoccio

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