Posted by altaterradilavoro on Mar 4, 2019
Lo scorso 2 marzo, alle ore 17, presso la sala consiliare del Comune di
Itri, si è tenuta la presentazione del libro “Storia della spedizione
dell’eminentissimo cardinale D. Fabrizio Ruffo” d Domenico Petromasi, edito nel
lontano 1801, per i tipi di Vincenzo Manfredi, e ristampato, in copia
anastatica, a cura e con un saggio introduttivo dello storico roccaseccano
Fernando Riccardi; saggio che narra l’impresa del Vicario Generale di Sua
Maestà Ferdinando IV di Borbone, che riesce, senza uomini, all’inizio, e senza
mezzi, al riacquisto del reame di Napoli, strappandolo ai Napoleonidi.
Questo evento, organizzato dall’Associazione Identitaria Alta Terra di Lavoro, guidata sagacemente dal
dott. Claudio Saltarelli, e dall’Associazione Archeologica Ytri, retta
magnificamente dalla dott/ssa Rosa Corretti, che si è avvalso del patrocinio del Comune di Itri,
è stato seguito da un folto e scelto pubblico che ha seguito con grande
attenzione le accurate relazioni dello storico Alfredo Saccoccio,
vicepresidente dell’Associazione Archeologica Ytri, e del saggista Fernando Riccardi, presidente
dell’Istituto di Ricerca delle Due Sicilie e membro della Società di Storia
Patria di Napoli e Terra di Lavoro.
Torna,
dunque, tra gli scaffali il libro “Storia della spedizione dell’eminentissimo
cardinale D. Fabrizio Ruffo”del Petromasi, che ricostruisce, passo dopo passo,
la straordinaria vicenda storica del 1799, ancora oggi poco conosciuta, perché
la vulgata storiografica imperante ha steso un velo di oblìo su quegli avvenimenti.
Pregevole il testo di Riccardi, frutto di un’attenta ed approfondita
ricerca scandagliando negli archivi e nelle biblioteche di Napoli le “ormai
consunte cronache sepolte sotto una densa coltre di polvere”. Esso attesta la
raggiunta maturità di un autore, che, da anni, frequenta argomenti di storia
patria e che ha superato i confini del provincialismo di maniera.
Grande merito di Fernando Riccardi, ricercatore che ama remare spesso
controcorrente , sempre però nel rispetto della realtà storica, che è poi
quella che promana dai documenti d’archivio, dai quali non si può e non si
dovrebbe prescindere, è quello di aver diradato le nebbie che avvolgevano,
fitte ed impenetrabili, gli avvenimenti e i fatti d’armi accaduti nel 1799, ad
opera del cardinale Ruffo, persona “di rari talenti dotato dalla natura, e di
straordinario coraggio fornito dal cielo”, a detta di Domenico Petromasi,
commissario di guerra e tenente colonnello dei Reali Eserciti di S. M.
Siciliana, che aveva vissuto gli avvenimenti in prima persona.
Il prelato calabrese si rese protagonista di un’impresa clamorosa, la riconquista del regno, progetto ritenuto
temerario, pieno di ostacoli, con poche possibilità di riuscita. Partendo da
Punta del Pezzo, alla chetichella, con soli sette uomin (il cardinale Ruffo,
l’abate Lorenzo Spanziani, il marchese Filippo Malaspina e quattro
servitori), senza artiglieria, senza
denaro, ma con la forza della fede e dei valori tradizionali, l’esercito
crocesegnato crebbe di numero, in maniera consistente, raggiungendo, in pochi
giorni, il numero di ventimila uomini, tra cui anche russi, turchi, portoghesi,
dalmati, albanesi ed inglesi. L’eterogenea truppa del cardinale Ruffo, che poi
potette contare su quarantamila uomini, risalì la Penisola verso la capitale
del reame, scontrandosi con i soldati del generale Filippo Wirtz, già
colonnello nelle fila borboniche, che rimase ucciso nel combattimento al Ponte
della Maddalena, guarnito da una formidabile artiglieria. Il porporato era
riuscito, in soli cinque mesi, a restituire al sovrano Ferdinando IV, grazie
all’ “Armata Cristiana e Reale”, il regno di Napoli, perso ad opera dei
francesi e dei cosiddetti “patriotti” partenopei, rei di aver aiutato i nemici
dei Borbone nell’installazione dell’effimero governo repubblicano a Napoli e
nelle province.
Uno zelante cooperatore di Fabruizio Ruffo nell’opera conquistatrice del
reame fu Michele Pezza, alias “Fra’ Diavolo”. A Napoli il lealista borbonico
combatté contro il generale Francesco
Bassetti, a Capodichino, sconfiggendolo e ferendolo. Nella capitale Michele
partecipò a tutti i combattimenti occupando le fortificazioni di Castelnuovo e
di Castel dell’Ovo, dove si trovavano 40.000 fucili. Galvanizzati dal suo coraggio e dal suo
selvaggio ardore, gli insorti, in seguito, ingrossarono le sue fila. L’itrano,
a Napoli, dette grandi prove di valore reagendo contro l’idea di conquista e di sopraffazione e contro le speciose
ideologie, che, con l’Illuminismo, si erano propagate in tutta Europa e con cui
imbonivano le masse. Il cittadino Carnot, in una impetuosa requisitoria al
Direttorio nazionale francese, gridò:
“Noi siamo divenuti l’esecrazione di tutto il mondo. Tutto il mondo ci segna
col nome di soverchiatori e di ladri”,
finendo così: “la maschera è caduta, l’illusione è scomparsa e
l’Onnipotente si è scosso”. Lo strazio arrecato all’Italia dai conquistatori fu
deplorato da Alfieri, Parini, Foscolo, Monti, Leopardi, i più nobili spiriti
del tempo.
Il temuto e famoso capomassa, al quale furono troppo spesso attribuiti orrori ed iniquità commessi da
altri capimassa, è pienamente rivalutato, tra gli altri, da Victor- Marie Hugo,
nella cui casa-museo, sotto il ritratto del padre, generale napoleonico, si
definisce il Pezza “nazionalista” e “legittimista”, gettando uno squarcio di
verità su questo personaggio mitico e leggendario, denso di suggestione e
pregno di arcano sapore. “Fra’ Diavolo personificava – lo sostiene il grande
scrittore e poeta transalpino – quel
tipo che si ritrova in tutti i Paesi in preda allo straniero, il bandito
legittimo in lotta con la conquista. Egli era in Italia quello che sono stati,
poi, l’Empecinado in Spagna, Canaris in Grecia e Abd-el- Kader in
Africa”.Lo storico Edouard Gachot
scrisse che Michele Pezza era una figura “grande e drammatica”, che non avrebbe
meritato la “caricatura popolare, dietro
la quale il vero profilo del modello sparve del tutto”, concludendo con il sostenere
che “Fra Diavolo fu nel suo genere un eroe e un grande patriota”. Il de Kock
definisce il Pezza “il più formidabile Capo degli insorti napoletani del
novantanove”. Il Rabbe gli riconosce molteplici prove di “generosità e di
grandezza d’animo, a riguardo dei viaggiatori caduti in suo potere,che gli
ispiravano dell’interesse”. Egli ospitò e rispettò cavallerescamente alcune
donne francesi, mogli di ufficiali, catturate dai suoi uomini e fatte
accompagnare dal Pezza a Capua, dove era la piazza dei franxesi.
“Fra’ Diavolo” fu un uomo infamato, screditato, fatto passare da
ribaldo, da volgare grassatore, da sanguinario rapinatore. Troppo spesso la
vera storia di Michele Pezza viene
travisata, dimenticata, offesa, per dar luogo a strane leggende di brigantaggio,
sviluppatesi attraverso i tempi ad opera specialmente di romanzieri e di
narratori dalla feconda immaginazione, facili alle fantasticherie di ogni
genere.
In realtà , egli non era altro che un grande guerrigliero che lottava, con tutte le forze, per la
propria terra, il Sud d’Italia, fedele ai principii della Monarchia teocratica,
alla Santa Vergine, devoto all’altare. Un personaggio che ha lasciato un segno
indelebile nella fantasia storica. Pochi personaggi hanno fatto breccia
nell’immaginario collettivo come “Fra’ Diavolo”.La leggenda che accompagna le
sue imprese è legata a quello strano soprannome di battaglia, che suonò come un incubo alle
orecchie dei fantaccini francesi inviati
fra le montagne impervie del Meridione
d’Italia, tra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento. Michele fu
un patriota, una sorta di eroe nazionale, cui viene riconosciuta una
grandezza e una legittimità della
resistenza alla conquista e alla
sottomissione, venute con le baionette. La democrazia non si esporta con i
cannoni e i fucili. Il leggendario ribelle, dal cuore generoso e nobile, sempre
pronto (ne aveva fornito mille prove) ad osare tutto per il trono e per la
Chiesa, era legato, in maniera inscindibile, alla cultura del proprio Paese,
con un profondo amore per il focolare domestico, quello dei padri, reso sacro
dalle tombe ancestrali. Egli accettva, con profondo rispetto, le decisioni
delle “autorità secolari”, che conservavano il genio della stirpe. La religione
gli imponeva l’obbligo di osservare regole morali. Per il Pezza la patria non era una parola
vuota di significato; la patria voleva dire tre cose: il suolo, gli abitanti e
la religione, trasmessa di generazione in generazione.
La purezza e l’eroismo della lotta sostenuta dal colonnello Pezza, duca
di Cassano allo Ionio, in difesa della
propria patria e del proprio re, e la morte, affrontata, a soli 35 anni, per
non venir meno alla sua fede, costituiscono la dimostrazione più lampante della
sua resistenza di soldato.
Chi è “Fra’ Diavolo” ? E’ l’eroe che, da solo, organizza la difesa del
suo paese e disperatamente combatte nel fortino di S. Andrea, fra Itri e Fondi,
contro la strapotente armata francese, comandata da generali e da ufficiali
superiori sfornati da accademie militari prestigiose; è il figlio che sul
cadavere del padre, assassinato dai “liberatori” francesi, giura di mantenere
la propria posizione senza deflettere; è il comandante che, incontratosi con il
commodoro inglese Thomas Trowbridge, respinge l’offerta di forti somme di
denaro e richiede, invece, cannoni e munizioni, provvedendo a mantenere i suoi
1700 uomini con fondi versati, a tale scopo, dai Comuni partecipanti alla lotta
contro gli invasori francesi; è il capo
di una truppa di massa, che annovera, fra i suoi effettivi, quattro ufficiali
cappellani (D. Angelo Castello, D. Tommaso Moretti, D. Onorato Costanzi e D.
Francesco Cassetta) ed un chirurgo (D.
Saverio Bonelli) ; è l’uomo che paga, di tasca propria, l’enorme debito di
27.000 ducati, contratti in nome del re, per la difesa del regno, “preferendo –
scrive egli – meglio patir lui e la sua famiglia che apparire impuntuale”.
“Fra’ Diavolo”, infine, è l’eroe, come abbiamo già accennato, che,
all’età di 35 anni, ricolmo di onori, colonnello dell’esercito borbonico,
beneficiario di una rendita vitalizia di 3.500 ducati, all’offerta del Ministro
do Polizia Christophe Saliceti, che gli
propone di aderire alla causa francese in cambio della vita, del grado, del
titolo nobiliare, della rendita, oltre ad un’altra carica del nuovo Stato, rifiuta
fieramente, preferendo il capestro piuttosto che passare tra le fila dei
conquistatori, che trucidavano, depredavano, saccheggiavano. Questi sarebbe l’infame, esecrato “Fra’
Diavolo”, chiamato a “mantenere l’interna tranquillità del regno” di Giuseppe
Bonaparte?
E’ ancora più eroico perché il “Leonida napoletano” non rinuncia al suo impegno fino all’ultimo
episodio della guerra, benché sappia che la sconfitta è inevitabile, benché veda
i tradimenti, le diserzioni, benché comprenda qual è il corso della storia. In
Piazza Mercato Michele “morì con segni di vero cristiano e con molta
edificazione”, indossando l’uniforme di colonnello borbonico e con il brevetto
di duca di Cassano allo Ionio al petto.
In ultima analisi, possiamo dire che Michele Pezza fu uno dei più
importanti e prestigiosi paladini dei Borbone, anima e fiamma della resistenza
del suolo patrio e delle patrie istituzioni, artefice della riconquista del
reame di Napoli, assieme al cardinale Fabrizio
Ruffo, l’uomo della Santa Fede che
battezzò un fortunatoo quanto spesso vilipeso vocabolo – sanfedista, appunto –
catalizzando la fiducia di centinaia e centinaia di uomini duri e spietati.
Michele Pezza, precursore della guerriglia particolare, ha provocato
sentimenti di forte ambivalenza in tutti coloro che si sono avvicinati alla
misteriosa figura: da una parte, erano attratti dal suo valore di combattente e
dalla sua intrepidezza; dall’altra, erano da questa spaventati e, dunque,
proiettavano in lui attributi di ferocia e di perfida malvagità.
Alfredo Saccoccio
Read More